di Massimo Benoit Torsegno
Sentenza 1/4/2021. La ricorrente, cittadina nigeriana giunta in Italia come vittima di tratta, è madre di due figlie, nate, rispettivamente nel 2012 e nel 2014. Nel 2014 la figlia minore è ricoverata in ospedale, dove le viene diagnosticata infezione da HIV, per cui il Tribunale per i Minorenni dispone la sospensione della potestà genitoriale. Nello stesso anno viene sospesa anche la potestà sulla figlia maggiore, e nel 2016 viene dichiarato lo stato di adottabilità delle minori, disponendone il collocamento presso due diverse famiglie affidatarie e vietando qualsiasi contatto tra le stesse e la madre. La Corte d’Appello conferma la sentenza del Tribunale, ritenendo che la ricorrente non abbia capacità genitoriale e respingendo l’istanza di sospensione del divieto di contatto con le figlie. La Corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza, non essendo stata presa in considerazione quella parte della perizia secondo cui il legame dei bambini con la madre avrebbe dovuto essere preservato. Nelle more del giudizio di rinvio, A.I. presenta ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani, che, con la sentenza commentata, ha ritenuto sussistere la violazione dell’art. 8 della Convenzione. La Corte, innanzitutto, a fronte dell’eccezione del Governo circa il mancato esaurimento dei ricorsi interni, ritiene ricevibile il ricorso, osservando come, trattandosi di diritto di visita, è necessaria una pronuncia più rapida, in quanto il passaggio del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il bambino ed i genitori.
Nel merito, poi, dopo aver richiamato le precedenti pronunce nei confronti dell’Italia in tema di adozione, l’art. 44 lett. b) L. 183/1994 e la normativa internazionale in materia, e dopo avere osservato che, essendo pacifico che le decisioni assunte costituiscono un’interferenza con il diritto al rispetto alla vita famigliare, sono previste dalla legge e perseguono uno scopo legittimo, occorre solo valutare se l’interferenza sia necessaria in una società democratica, afferma che:
– qualsiasi autorità che adotti misure tali da limitare la vita familiare è vincolata dall’obbligo positivo di prendere provvedimenti per facilitare il ricongiungimento non appena questo sia possibile;
– il margine di apprezzamento varia a seconda della natura del contenzioso e degli interessi in gioco, e cioè, da un lato, la protezione del minore in situazioni di pericolo per la sua salute o il suo sviluppo, e, dall’altra, l’obiettivo di riunire la famiglia, ove le circostanze lo consentano;
– quindi, se le autorità hanno libertà nel valutare la necessità di prendersi cura del minore, è, invece, necessario un più stringente controllo su ulteriori restrizioni aggiuntive che comportino il rischio di recidere i legami familiari, cosicchè solo circostanze del tutto eccezionali possono portare alla rottura del legame;
– in ogni caso, occorrono puntuali e motivate ragioni per giustificare il collocamento dei fratelli in famiglie diverse, in quante esso è sicuramente contrario al superiore interesse dei minori;
– nel caso concreto, la ricorrente è stata privata del diritto di visita nonostante l’assenza di prove di violenze o abusi, le minori sono state collocate in famiglie diverse, rendendo difficile il mantenimento dei legami fraterni e causando la disgregazione della famiglia in contrasto con il superiore interesse delle stesse, e nel valutare le capacità genitoriali della ricorrente, non si è tenuto conto della vulnerabilità della stessa in quanto vittima di tratta, nè della sua origine e del diverso modello di attaccamento tra genitori e figli che si riscontra nella cultura africana;
– pertanto, non sono state attuate garanzie proporzionate alla gravità dell’interferenza, in quanto i giudici italiani non hanno effettuato il bilanciamento tra gli interessi in gioco, ma, a dispetto di quanto stabilito dalla perizia e senza tener conto del profondo legame esistente e dei danni che l’interruzione definitiva dei contatti poteva causare, non hanno cercato di mantenere i rapporti tra le bambine e la madre.