di Paola Regina
Nel 2018 l’Ungheria, al fine di contrastare l’immigrazione irregolare, aveva introdotto, per via legislativa, un nuovo motivo di inammissibilità delle domande di asilo, prevedendo la configurazione di una nuova fattispecie di reato, avente ad oggetto la preparazione e la presentazione delle domande dei richiedenti asilo, che si presumano a priori “non aventi diritto d’asilo” “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
La stessa legge prevedeva, altresì, limitazioni della libertà di movimento per chi sia soltanto sospettato di aver commesso tali reati. La Corte di Giustizia, all’esito del procedimento C-821, è intervenuta con sentenza del 16 novembre 2021 statuendo che, nell’adottare tali disposizioni, l’Ungheria sia venuta meno agli obblighi derivanti dal diritto europeo ed in particolare dalla Direttiva «procedure», 2013/32/UE e dalla Direttiva «accoglienza» 2013/33/UE.
Dunque, in primo luogo, la Corte di Giustizia ha dichiarato che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi derivanti dalla normativa europea, consentendo per legge di respingere, mediante pronuncia d’inammissibilità, le domande di protezione internazionale, quando il richiedente sia giunto sul territorio ungherese, senza attraversare uno Stato in cui non è stato esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave. La Corte di Giustizia ha ricordato che la Direttiva «procedure», all’art. 33, par. 2, elenca tassativamente le ipotesi in cui gli Stati membri possono considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile. Dunque, il nuovo motivo d’inammissibilità, introdotto dalla normativa ungherese, non corrisponde ad alcuna delle ipotesi indicate dalla normativa europea, non assolvendo, in tal modo alle condizioni di rigetto delle protezioni internazionali, prescritte dal diritto dell’Unione Europea.
Inoltre, la Corte ha dichiarato che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi derivanti dalle direttive «procedure» e «accoglienza», prevedendo una nuova ipotesi di reato, avente ad oggetto il comportamento di chi, nell’ambito di un’attività organizzativa, offra un sostegno alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, qualora sia possibile provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tale persona fosse consapevole del fatto che la domanda d’asilo non potesse essere accolta.
Per giungere a tale conclusione, la Corte si chiede, in primo luogo, se la normativa ungherese, che prevede il suddetto reato, costituisca una limitazione dei diritti derivanti dal diritto dell’Unione Europea ed in particolare, dalle specifiche Direttive «procedure» e «accoglienza» ed in secondo luogo, se tale limitazione possa essere giustificata, alla luce del diritto dell’Unione.
La Corte, dopo aver verificato che talune attività di assistenza ai richiedenti protezione internazionale, previste dalle direttive «procedure» e «accoglienza», rientrino nell’ambito di applicazione di tale normativa sanzionatoria ungherese, ha statuito che tale normativa nazionale limita l’effettività del diritto fondamentale dei richiedenti asilo di accesso all’assistenza legale.
Inoltre, la Corte considera che una siffatta limitazione non può essere giustificata dagli obiettivi invocati dal legislatore ungherese, come la lotta all’immigrazione illegale ed al sostegno nella formulazione di richieste infondate di protezione internazionale.
In particolare, la Corte osserva che la normativa ungherese punisce anche comportamenti che non possono essere considerati pratiche fraudolente o abusive, poiché indica come perseguibile penalmente chiunque offra sostegno nella presentazione di una domanda di asilo, pur sapendo, a priori, prima del vaglio della Commissione preposta, che tale domanda non può essere accolta, sulla base del diritto interno ungherese (anche se esso sia contrario al diritto dell’Unione Europea o al diritto internazionale). Pertanto, il rischio, per la persona interessata, di essere esposta a una sanzione penale, per il solo motivo che la medesima non poteva ignorare che la domanda di asilo era destinata all’insuccesso, rende incerta la legittimità di qualsiasi sostegno finalizzato a consentire l’espletamento della procedura di riconoscimento del diritto di asilo. Di conseguenza, la Corte conclude, affermando che detta disposizione legislativa è idonea a dissuadere fortemente chiunque intenda fornire un qualsivoglia sostegno finalizzato a presentare o a inoltrare una domanda volta all’accertamento del diritto d’asilo, previsto dall’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e disciplinato dall’articolo 6 della Direttiva 2013/32.
Di conseguenza, i richiedenti asilo rischierebbero di essere privati del diritto fondamentale alla difesa, che potrebbe, invece, consentire loro di contestare la conformità della normativa nazionale al diritto dell’Unione Europea.
Infine, come già evidenziato, tale normativa ungherese impone una sanzione alle persone che intendano offrire un sostegno nella presentazione della domanda d’asilo, qualora detta domanda sia inidonea ad essere accolta, sulla base del diritto ungherese. La Corte di Giustizia osserva che, da un lato, non ci si può attendere un simile controllo da parte di tutti i cittadini, tanto da parte dei richiedenti asilo, perché, naturalmente possono avere difficoltà nel raccogliere e nel far valere, soprattutto in fase iniziale, tutti gli elementi di prova che consentano loro di ottenere lo status di rifugiato. Dall’altro lato, il rischio, per le persone interessate, di essere esposte a una sanzione penale particolarmente severa, ossia la privazione della libertà, per il solo motivo che le medesime non potevano ignorare che la domanda di asilo era destinata all’insuccesso, rende incerta la legittimità di qualsiasi sostegno finalizzato a consentire l’espletamento di queste due fasi essenziali della procedura di riconoscimento dell’asilo. La normativa ungherese può dunque dissuadere fortemente chiunque intenda offrire sostegno in tali fasi della procedura, anche qualora tale assistenza miri unicamente a consentire al cittadino di un paese terzo di esercitare il suo diritto fondamentale di richiedere asilo in uno Stato membro, ed eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo della lotta contro le pratiche fraudolente o abusive.
Peraltro, la Corte ha constatato che la prestazione di assistenza al fine di presentare o inoltrare una domanda di asilo in uno Stato membro non può essere considerata un’attività che facilita né l’ingresso né il soggiorno irregolare di un cittadino di un paese terzo in detto Stato membro, dunque la configurazione del reato istituito dalla normativa ungherese non costituisce una misura idonea a perseguire siffatto obiettivo. La normativa ungherese, in conclusione, limita fortemente i diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalle specifiche direttive europee summenzionate. Una siffatta limitazione non può essere ragionevolmente giustificata in considerazione del medesimo allo scopo di ridurre la migrazione irregolare (scopo che non viene ugualmente perseguito mediante tale normativa nazionale).