di Margherita Tommasini
Con sentenza pubblicata il 20 gennaio 2022, la Prima Sezione della Corte Europea dei diritti dell’uomo si pronunciava sul caso D.M. e N. c. Italia (ricorso n. 60083/19), confermando la sua giurisprudenza in merito alla dichiarazione di adottabilità.
Nella fattispecie, a seguito di violenze domestiche da parte del compagno, la prima ricorrente (di seguito anche “la madre”) e sua figlia (di seguito “seconda ricorrente” o “la minore”) venivano accolte in una casa-famiglia di Brescia. La prima ricorrente era riuscita a riacquisire un’indipendenza economica dall’ex-compagno e aveva intrapreso altre relazioni affettive.
Nel corso dei primi due anni nella casa-famiglia, i rapporti emessi dai servizi sociali riportavano positivamente i progressi compiuti dalla madre e il forte legame con sua figlia. Tuttavia, in svariati rapporti del 2015, gli operatori della casa-famiglia denunciavano l’incapacità genitoriale della madre e chiedevano al Tribunale l’affidamento della minore. Tra le varie questioni sollevate dagli operatori figuravano in particolare delle dichiarazioni di terzi – la cui affidabilità non è mai stata verificata – in merito alla vita affettiva dell’interessata nonché a comportamenti sessualizzati della minore. Il 3 settembre 2015 il pubblico ministero chiedeva la sospensione dell’autorità parentale della prima richiedente e l’apertura di una procedura di adottabilità della minore. Fin da subito, la prima ricorrente aveva chiesto che fosse disposta una consulenza tecnica d’ufficio (CTU) volta a verificare le proprie capacità genitoriali e lo stato di salute psichica della seconda ricorrente.
Il 15 dicembre 2015, con ordinanza immediatamente esecutoria, il Tribunale dichiarava l’adottabilità della seconda ricorrente. Veniva dunque sospesa l’autorità parentale dei genitori, nonché le visite con la minore, e si ordinava l’affidamento di quest’ultima ad una coppia in vista dell’adozione. Sulla base dei resoconti forniti dagli operatori sociali e senza ritenere necessario disporre una CTU, il Tribunale riscontrava un’incapacità genitoriale irreversibile della madre. Riteneva, inter alia, che la ricorrente conducesse uno stile di vita instabile in ragione dei vari lavori occasionali che esercitava, ma soprattutto perché “si era legata ad un uomo che la maltrattava” e “aveva scelto di concepire un bambino con un uomo che aveva appena incontrato” (traduzione della scrivente).
Nel proporre appello dinanzi alla Corte di appello di Brescia, la madre reiterava la richiesta di CTU, evidenziandone la necessarietà per indagare i comportamenti sessualizzati della minore di cui il Tribunale si era detto preoccupato. La Corte d’appello rigettava sostenendo che, oltre al periodo di osservazione a cui le ricorrenti erano state sottoposte, il Tribunale aveva condotto un’indagine autonoma, e che, nonostante vi fosse un margine di recupero delle capacità genitoriali, tale opzione avrebbe interessato un lasso di tempo tale da ritenere preferibile una dichiarazione di adottabilità della minore.
Avverso la sentenza della Corte d’appello veniva proposto ricorso per Cassazione. La prima ricorrente lamentava la violazione dell’articolo 15 della L. n. 184 del 1983 e dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in ragione della mancata CTU e ritenendo infondata la dichiarazione dello stato di abbandono della minore. Con sentenza del 12 febbraio 2019, la Cassazione rigettava il ricorso ritenendo che la dichiarazione di adottabilità fosse provvista di base legale e che il respingimento della richiesta di CTU fosse stato adeguatamente motivato.
A fronte di tale decisione, la prima ricorrente proponeva ricorso alla Corte Edu, sollevando una violazione dell’articolo 8 della Convenzione. La ricorrente sosteneva che, da un lato, la dichiarazione di adottabilità della figlia non era stata motivata da circostanze eccezionali, la sussistenza delle quali è necessaria affinché una misura radicale come la rottura del legame familiare possa trovare applicazione (si veda a riguardo l’articolo 8 della L. n. 184 del 1983). Dall’altro lato, la ricorrente evidenziava che le autorità italiane non avevano compiuto gli sforzi necessari ad evitare una misura così estrema quando invece sarebbe stato sufficiente intraprendere un percorso di sostegno mirato a destinazione dei genitori. Secondo la ricorrente, le misure adottate dalle giurisdizioni interne hanno provocato un profondo trauma alla minore che ha subìto una repentina rottura del legame con i genitori.
Nel pronunciarsi all’unanimità, la Corte Edu ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione.
L’analisi della Corte prende origine dal consolidato principio (si veda, inter alia, Barnea e Caldararu c. Italia, n. 37931/15, §63, 20 giugno 2017) secondo cui ogni misura volta a separare un genitore ed un figlio costituisce un’ingerenza del diritto al rispetto della vita privata e familiare salvo che se (1) prevista dalla legge, (2) adottata allo scopo di soddisfare un interesse legittimo ai sensi dell’articolo 8§2 della Convenzione, e (3) necessaria in una società democratica.
Nel caso di specie, la Corte considera che le misure adottate dalle autorità italiane costituivano un’ingerenza, integrando però i primi due criteri. La questione era quindi se l’ingerenza in questione fosse necessaria in una società democratica.
La Prima Sezione della Corte, nell’esame della proporzionalità della misura, ricorda che il fine ultimo degli obblighi positivi in materia che pesano sugli Stati corrisponde alla riunificazione familiare. Difatti, la rottura definitiva del legame familiare per mezzo di una dichiarazione di adottabilità costituisce l’ultima ratio cui le autorità devono rivolgersi solamente in circostanze eccezionali e in assenza di misure alternative disponibili. A questo proposito, la Corte ricorda che, se le autorità nazionali beneficiano di un margine di apprezzamento a riguardo, la protezione del minore e l’obiettivo di riunificazione familiare costituiscono interessi che devono sempre essere tenuti in considerazione. Pertanto, la Corte si permette un controllo più rigoroso con riguardo alle misure supplementari che le autorità possono prendere, ad esempio in merito al diritto di visita, le quali rischiano di intaccare pesantemente il diritto al rispetto della vita privata e familiare degli interessati.
Con riguardo al caso specifico, la Corte ha ritenuto che, in ragione dell’ingerenza nella vita privata e familiare che la dichiarazione di adottabilità comporta, la mera considerazione temporale sostenuta dalle autorità italiane – secondo cui, nonostante le possibilità di recupero delle capacità genitoriali da parte della madre fosse comunque preferibile, e nell’interesse superiore della minore, procedere con una tale dichiarazione – non è sufficiente a supportare una rottura radicale e definitiva del legame familiare.
Considerando dunque insufficienti e inadeguati gli elementi di prova su cui veniva fondata la dichiarazione di adottabilità, la Corte afferma che le autorità italiane non hanno preso in considerazione misure alternative e meno radicali, pertanto disponibili, volte a salvaguardare il legame tra le due ricorrenti.
Nella sentenza in commento la Corte conclude dichiarando che l’ingerenza nella vita privata e familiare delle ricorrenti non è stata proporzionata all’interesse legittimo perseguito.
Interessante notare che la Corte dichiara ingiustificate e irrilevanti ai fini della valutazione delle capacità genitoriali della madre le considerazioni delle autorità interne circa la sua libertà sessuale e le sue scelte affettive. Tuttavia, la Corte non include in tale osservazione la vittimizzazione secondaria esercitata dalle giurisdizioni interne nell’elencare tra i criteri di apprezzamento delle capacità genitoriali il fatto che la ricorrente “si era legata ad un uomo che la maltrattava”.