di Massimo Benoit Torsegno

Il caso riguarda una cittadina danese che, insieme al marito, aveva concluso in Ucraina un accordo di gestazione da cui erano nati due gemelli, di cui quest’ultimo era il padre biologico, e che, non essendo riconosciuta come madre dal diritto danese nel quale gli accordi di maternità surrogata non hanno effetto, aveva chiesto l’autorizzazione ad adottare i bambini, che avevano, comunque, già ottenuto la nazionalità danese a seguito del riconoscimento da parte del padre.

La domanda era stata rigettata dall’Autorità amministrativa con decisione confermata dalla Commissione Nazionale d’appello in materia sociale, ritenendo che l’adozione fosse in contrasto con la sezione 15 dell’Adoption Act, secondo cui “l’adozione non può essere autorizzata se qualsiasi persona cui è richiesto il consenso all’adozione paga o riceve un compenso, altro genere di corrispettivo e/o qualunque altra cosa, incluso l’indennizzo per la perdita di guadagni”.

Quindi, la Sig.ra K.K. ricorreva alla Corte Distrettuale che, però, dichiarava legittimo il rifiuto di autorizzare l’adozione e la sentenza veniva, poi, confermata dalla Corte Suprema, la quale, ritenuto, da un lato, che l’importo corrisposto alla Clinica Ucraina comprendesse anche la remunerazione della madre surrogata sia per la gestazione che per il consenso all’adozione dei figli e, dall’altro, che (sebbene fosse opportuno che il Governo la riconsiderasse) la norma sopracitata contiene un divieto assoluto di adozione ove qualcuno riceva una remunerazione per consentirvi, ha affermato, tra l’altro, che il rifiuto opposto non contrasta con l’art. 8 della CEDU, richiamando, a tal proposito, le sentenze emesse dalla Corte Europea nei casi Mennesson c. Francia e Paradiso e Campanelli c. Italia.

A seguito di tale decisione, la Sig.ra K.K proponeva, quindi, ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando, anche a nome dei figli, la violazione dell’art. 8 della Convenzione.

La Corte di Strasburgo, dopo aver escluso la violazione del diritto al rispetto della vita familiare, non essendo stati posti ostacoli pratici alla vita comune tra il marito, i bambini e la ricorrente, e dopo aver, altresì, escluso la violazione del diritto al rispetto della vita privata di quest’ultima, ha, invece, considerato violato l’art. 8 per quanto concerne il rispetto della vita privata dei figli.

A tal proposito, la Corte, dopo aver osservato che l’art. 15 della legge danese sull’adozione, nel vietare che la persona che vi acconsente venga retribuita, ha il legittimo scopo di impedire che i bambini divengano una mercanzia, ha rammentato che il diritto alla vita privata degli stessi, pur non richiedendo l’iscrizione del nome della madre sull’atto di nascita, tuttavia, rende necessarie altre misure che permettano un riconoscimento legale della maternità, quale l’adozione, rilevando come, nel caso concreto, il rifiuto di quest’ultima abbia impedito di instaurare un legame di filiazione legalmente riconosciuto, cosicchè i bambini si erano trovati in una situazione giuridica incerta (ad esempio, per quello che concerne, i diritti successori) la quale non veniva, comunque, compensata dalle misura adottate in ordine alla condivisione dell’autorità parentale.

Quindi, nel rammentare che l’interesse dei bambini deve essere preminente in affari di questo genere e nel rilevare, altresì, come, a prescindere dall’adozione, la legislazione danese non prevedesse altre possibilità di riconoscere la relazione genitoriale con la madre intenzionale, ha stimato che tale mancanza di riconoscimento aveva di per sé un’impatto negativo sul diritto dei bambini al rispetto della vita privata, ponendoli in una posizione di incertezza legale in merito alla loro posizione nella società, per cui non era stato mantenuto un corretto equilibrio fra l’interesse dei figli e quello di limitare le conseguenze della maternità surrogata con finalità commerciali, violando, così, l’art. 8 della Convenzione.

La decisione è di notevole interesse sia perchè riguarda una fattispecie analoga a quelle oggetto delle sentenze Paradiso e Campanelli c. Italia (con cui, tuttavia, la Grande Camera aveva escluso la violazione dell’art. 8) e Mennesson e Labassee c. Francia, nonchè del primo parere reso ai sensi del protocollo 16 della Convenzione (tutti richiamati, infatti, in motivazione), sia perché menziona tutte le pronunce in materia emesse successivamente al predetto parere consultivo, e, cioè C.E. and Others v. France del 24 Marzo 2022 (https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-216706 ), A.M. v. Norway, del 24 Marzo 2022 (https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-216348 ),  Valdís Fjölnisdóttir and Others v. Iceland, n° 71552/17, del 18 Maggio 2021 (https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-209992 ) e H. v The United Kingdom del 31 Maggio 2022 (https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-218220 ), sottolineando come dalle stesse emerga che la Corte Europea adotta un approccio olistico, tenendo conto non solo della situazione in essere quando il bambino è nato o quando viene esaminato il ricorso, ma, anche, dell’eventuale possibilità di un successivo riconoscimento legale, e determina, quindi, “in concreto” gli effetti dell’interferenza nella vita privata del ricorrente, non essendo suo compito controllare “in abstracto” la compatibilità con la Convenzione della normativa dello Stato parte.