di Massimo Benoit Torsegno
La pronuncia in esame riguarda il ricorso proposto dall’Avv. Giuliano Germano, il quale, deducendo che nel 2009 gli era stato recapitato un ammonimento emesso della Questura su richiesta della moglie (che affermava di essere vittima di maltrattamenti e minacce da parte sua) che gli ingiungeva di non reiterare tali comportamenti e che non veniva annullato nonostante l’impugnazione avanti al Consiglio di Stato, lamentava la violazione dell’art. 8 relativo al rispetto della vita privata e familiare.
In particolare, egli affermava di non essere stato informato della domanda di ammonimento e di non aver, quindi, potuto fornire la propria versione dei fatti, lamentando come l’ammonimento non sia stato motivato, le indagini fossero piene di errori ed il controllo di esse insufficiente, e come tutto ciò avesse leso la sua vita privata, e, in particolare, l’immagine professionale e la possibilità di avere contatti con la figlia.
La Corte, dopo aver ricordato che nelle questioni relative alle violenze domestiche gli Stati hanno l’obbligo (derivante sia dagli artt. 2, 3 ed 8 della CEDU sia dalla Convenzione di Istanbul) di prendere misure dirette a proteggere le vittime, anche potenziali, contro i rischi reali ed immediati per la loro vita e contro danni fisici e psicologici, e, pur ammettendo che, nel caso concreto, l’ammonimento aveva una base legale nel D.L. 11/2009 (giudicato sufficientemente chiaro ad evitare arbitrarietà) e non occorresse, quindi, la prova della commissione di un reato, tuttavia, giudica problematico che il quadro giuridico nazionale dell’epoca non prevedesse né la limitazione temporale della misura né il diritto di ottenerne il riesame o la revoca ove essa non fosse più giustificata, quando, al contrario, l’art. 53 § 2 della Convenzione di Istanbul dispone che le ordinanze di protezione siano pronunciate per un periodo specifico o fino alla modifica o alla revoca.
Inoltre, la Corte ritiene, da un lato, che nel caso concreto fosse necessario un più preciso controllo in quanto l’ammonimento rendeva possibile l’indagine penale per maltrattamenti anche in assenza di denuncia, e, dall’altro, che gli obblighi imposti al ricorrente fossero stati indicati in termini assai generici.
Infine, nel valutare se il quadro giuridico fosse associato ad un sufficiente processo decisionale, osserva che:
– il ricorrente non aveva avuto la possibilità di difendersi, in quanto, anche ammettendo che, in caso di urgenza, la polizia possa decidere di non sentire l’indagato, non si comprende perché, pur avendo assunto le deposizioni di 17 testimoni, le autorità non avessero sentito anche quest’ultimo;
– comunque, nel verbale non vi era alcun chiarimento sul modo in cui erano stati raccolti gli elementi di prova;
– poiché l’ammonimento era stato emesso unicamente sulla base degli argomenti presentati dalla moglie, le autorità erano tenute ad un apprezzamento autonomo e prognostico del rischio, che, invece, non risultava effettuato, in quanto il Consiglio di Stato si era limitato a dire che l’ammonimento era legittimo senza esaminare gli elementi di prova disponibili.
Sulla base di ciò, quindi, la Corte giunge alla conclusione che l’Autorità Giudiziaria non abbia svolto un sufficiente controllo del fondamento fattuale e giuridico nonché della necessità e della proporzionalità della misura, non avendo offerto al ricorrente una protezione adeguata contro gli abusi, e che, quindi, l’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non poteva ritenersi “necessaria in una società democratica”, con conseguente violazione dell’art.8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.