Presentazione del Disegno di Legge
“La dignità civile del bambino “Nato morto” – Disposizioni concernenti il diritto di iscrizione all’anagrafe del feto “nato morto”
Martedì 14 aprile alle ore 14:00 presso il Senato della Repubblica, sala “Caduti di Nassirya”, Palazzo Madama a Roma
Sono intervenuti:
Sen. Laura Puppato (PD), Firmataria del disegno di legge
Sen. Aldo Di Biagio (AP), Firmatario del disegno di legge
Andrea Napoli, Presidente Associazione “Pensiero Celeste”
Avv. Anton Giulio Lana – Segr. Gen. Unione Forense per i diritti dell’Uomo
Qui di seguito si riporta l’intervento dell’avv. Anton Giulio Lana
L’attuale normativa italiana relativa alla vicenda della natimortalità si sviluppa in una congerie complessa e contraddittoria di fonti: regolamenti UE, leggi, regi decreti, normativa secondaria e ancora circolari ministeriali e regionali. Tale confusione, priva di ogni sistematicità, non solo crea profondo turbamento alle famiglie che vivono questa tragedia ma anche problemi all’operatore del diritto e, in modo particolare, a chi si trovi a dover applicare le relative disposizioni. Vi è, infatti, un approccio non sistematico nella legislazione sulla natimortalità, con una serie di disposizioni che in tema di trasporto e sepoltura, registrazione presso l’anagrafe, congedo di maternità per la madre lavoratrice, individuano parametri differenti per la definizione del nato morto.
L’attuale frammentata normativa italiana prevede, ad esempio, in materia di tutela della madre lavoratrice (ex art. 16 del D. Lgs. N. 151 del 2001), la possibilità del congedo di maternità anche nel caso di nato morto, ma solo dopo il 180° giorno di gestazione. Invece il regolamento di polizia mortuaria, di cui al D.P.R. n. 285 del 1990, prevede il permesso di seppellimento per il nato morto partorito successivamente alla ventottesima settimana di gestazione, e stabilisce al contempo un criterio di discrezionalità nel caso di nati morti di età gestazionale inferiore alle 28 settimane, per i quali deve essere proposta specifica richiesta di seppellimento all’Unità sanitaria da parte dei genitori. In modo ancora diverso è dettata la definizione del “nato morto” dal Regolamento UE n. 328/2011 del 5 aprile 2011 laddove, con termini ripresi quasi letteralmente nel testo oggi presentato, si precisa che per nato morto deve intendersi la morte del feto, ossia il decesso prima dell’espulsione o dell’estrazione completa dal corpo della madtre, quale che sia la durata della gestazione.
Questa confusione e contraddittorietà ha creato nella prassi un approccio tendenzialmente restrittivo da parte delle autorità competenti, come dimostrato dalla vicenda affrontata dal Tribunale ordinario di Padova, relativamente ad una coppia di genitori che ha dovuto rivolgersi al giudice civile per ottenere l’iscrizione della propria figlia nata morta nel registro dell’anagrafe, a seguito del rifiuto da parte dell’amministrazione competente (caso Celeste).
Devo aggiungere che l’attuale carenza di sistematicità del nostro ordinamento è suscettibile di creare un problema di scarsa certezza e prevedibilità della normativa da applicare al caso concreto tale da esporsi alla severa critica da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella misura in cui ci si chieda se la normativa nazionale non riesca a fornire un’adeguata protezione giuridica contro le interferenze statali sul diritto al rispetto della vita familiare, così come richiesto dall’art. 8 della CEDU. Ciò è proprio quanto avvenuto in un caso recente deciso dalla Corte EDU (Marić c. Croazia, sentenza del 12 giugno 2014, § 70): con questa sentenza i giudici di Strasburgo, nell’accogliere il ricorso di un padre di un bimbo nato morto al nono mese di gestazione, che lamentava di non aver potuto ottenere alcuna informazione circa il luogo di sepoltura del corpo del proprio figlio, hanno statuito, infatti, che le procedure riguardanti la sepoltura dei bambini nati morti non erano state regolamentate in modo coerente dalla normativa croata, in violazione dell’art. 8 CEDU, violando così il principio della necessaria certezza e prevedibilità del diritto interno applicabile. E’ dunque molto verosimile che un ricorso presentato alla Corte europea da parte di genitori italiani che hanno vissuto un’analoga tragedia conduca ad una sentenza di condanna nei confronti del nostro Paese in assenza di una normativa coerente ed omogenea come sopra illustrato.
Oltretutto, questo attuale assetto di frammentazione si è sino ad oggi rivelato di tutto detrimento per i genitori che si trovino a dover affrontare la morte in utero del proprio nascituro, un fenomeno che purtroppo colpisce una cifra considerevole di famiglie (circa 180 mila, come chiarito nella presentazione del ddl) ma che, per una forma deleteria di tabù, nonché per mancanza di comprensione e scarsa sensibilità sul tema, è sinora rimasto un argomento di discussione inevaso.
Da qui la ratio del ddl che oggi siamo qui a presentare, e la sua – niente affatto secondaria – importanza: un disegno di legge che si pone finalmente l’obiettivo di aprire la discussione sul tema. Occorreva invero intervenire in questa situazione contraddittoria e sensibilizzare su una legislazione che si astiene colpevolmente di tutelare le famiglie colpite dalla perdita di un figlio, colmando un vuoto normativo sul tema e risolvendo un contrasto tra disposizioni di diversi settori che afferiscono alla medesima situazione fattuale.
Quello che manca nell’attuale normativa è proprio uno strumento che muova dall’obiettivo di tutelare e rispettare il nucleo familiare colpito dal lutto. Appare in altre parole necessario predisporre, anche a livello normativo, dispositivi che tengano nella dovuta attenzione l’interesse per i genitori che hanno perso un figlio, in considerazione dell’elaborazione del loro lutto, il tutto nel rispetto della dignità genitoriale e della creatura prematuramente morta, principi – questi – assolutamente degni di tutela da parte del nostro ordinamento. Ciò è talmente vero che, nei paesi a noi vicini, la Francia e la Germania, tali valutazioni hanno portato a una riflessione dei rispettivi legislatori e ad una conseguente attività normativa a tutela proprio della dignità dei genitori e del nato morto.
In base alla legislazione tedesca, ad esempio, è possibile iscrivere all’anagrafe il nato morto che abbia un peso superiore ai 500 grammi, così come prescritto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nelle sue linee guida, che utilizza questo unico criterio del peso per distinguere tra prodotto del concepimento e, appunto, nato morto, in quanto è acclarato a livello scientifico che l’età gestazionale non fornisce un criterio sufficientemente oggettivo.
Riconoscere dunque il diritto di iscrizione all’anagrafe del nato morto, in base alla definizione fornita dal ddl all’art. 1, è un obiettivo sacrosanto nonché una scelta di civismo per l’attuale legislatore. E dunque, in quanto avvocato che si batte da ormai 30 anni per la difesa dei diritti umani, ho sentito subito di promuovere e voler far mia questa battaglia, dopo aver conosciuto e apprezzato il lavoro di un’associazione a me cara quale Pensiero Celeste, con la quale, insieme all’associazione di cui sono Segretario generale, l’Unione forense per la tutela dei diritti umani, abbiamo intrapreso questo percorso di sensibilizzazione, oggi giunto a questo primo traguardo della presentazione di un ddl.
Da giurista mi preme, infine, sottolineare che, seppur il concepito non abbia alcuna autonoma soggettività giuridica (e ciò lo rende insuscettibile di renderlo concretamente titolare di aspettative patrimoniali), mi pare che non vi sia alcun ostacolo affinché il nostro ordinamento lo consideri un soggetto meritevole di tutela ed, in quanto tale, titolare di diritti e interessi da proteggere. Concetto che è presente nella nostra giurisprudenza e che tanto più è valevole nel caso di diritti fondamentali e personalissimi quali il diritto ad avere degna sepoltura, il diritto ad avere un nome e ad essere iscritto nel certificato storico della propria famiglia.
La facoltà di iscrivere il proprio figlio nato morto all’anagrafe, la possibilità di dargli un nome, iscriverlo nel certificato storico della propria famiglia, rappresenta infatti una forma adeguata di tutela per le famiglie che hanno perso un figlio, oltre che un modo per dargli dignità: una scelta civica che è il momento di approntare nel nostro ordinamento.