di Valentina De Giorgio
In data 16 novembre 2023, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata su due casi – il caso A.E. e T.B. c. Italia (ricorsi n. 18911/17, 18941/17 e 18959/17) e il caso W.A. e altri c. Italia (n. 18787/17) – riguardanti nove cittadini sudanesi arrivati in Italia nell’estate del 2016.
I quattro ricorrenti del caso A.E. e T.B. c. Italia lamentavano le scarse condizioni materiali del loro trasferimento da Ventimiglia a Taranto e da Taranto a Ventimiglia, le condizioni dell’hotspot di Taranto dove erano stati collocati, e uno dei ricorrenti (T.B.) lamentava di essere stato maltrattato nell’esecuzione di un provvedimento di respingimento. Nel corso del 2016, i quattro ottenevano la protezione internazionale sulla base dei rischi che un eventuale rimpatrio in Sudan avrebbe comportato per le loro vite. Nei loro ricorsi, i ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 3, dell’art. 5, parr. 1, 2, 3 e 4, dell’art. 8 e dell’art. 13.
Il cinque ricorrenti del caso W.A. e altri c. Italia affermavano di aver fatto parte di un gruppo di quaranta migranti che erano stati espulsi il 24 agosto 2016. Lamentavano, dunque, di aver subito un’espulsione collettiva contrastante con l’art. 4, Prot. 4 CEDU, di essere stati discriminati per la loro nazionalità in violazione dell’art. 14 CEDU, nonché di aver subito una violazione del loro diritti ad un rimedio effettivo ex art. 13 CEDU. Sostenevano, inoltre, che le autorità italiane non avevano tenuto conto del rischio di trattamenti inumani e degradanti che un eventuale rimpatrio in Sudan avrebbe loro causato, in violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani o degradanti).
Per quanto riguarda le doglianze presentate dai ricorrenti nel caso A.E. e T.B. c. Italia, la Corte ha ritenuto che le condizioni del loro arresto e dei vari trasferimenti, considerate nel loro insieme, abbiano causato considerevole angoscia e sentimenti di umiliazione, equiparabili a un trattamento degradante, in violazione dell’art. 3 CEDU. Infatti, non vi erano motivi sufficientemente convincenti per giustificare il fatto che i ricorrenti fossero stati lasciati nudi insieme a molti altri migranti, senza alcun rispetto della propria privacy e mentre erano sorvegliati dalla polizia, nonché per le condizioni dei loro successivi trasferimenti da e verso l’hotspot di Taranto, sotto il costante controllo della polizia e senza sapere dove stessero andando o perché. Inoltre, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 3 (volet procedurale) in ragione del difetto di svolgimento di alcuna indagine in merito alle accuse del ricorrente (T.B) di essere stato picchiato da agenti di polizia durante un tentativo di allontanamento.
Infine, la Corte ha ritenuto che l’Italia abbia violato l’art. 5, parr. 1, 2 e 4 CEDU (diritto alla libertà e alla sicurezza) per tre dei quattro ricorrenti in relazione ad arresto, trasporto e detenzione arbitrari, dichiarando inammissibile la doglianza del quarto ricorrente (A.E.) relativa alle circostanze della sua detenzione, in quanto lo stesso già nel 2016 era stato il destinatario di un provvedimento di respingimento.
L’Italia è dunque stata condannata a pagare ai ricorrenti nella causa A.E. e T.B. c. Italia 27.000 euro in totale per i danni non pecuniari e 4.000 euro per le spese e i costi.
Per quanto riguarda il caso W.A. e altri c. Italia, la Corte ha ritenuto che quattro dei cinque ricorrenti non avessero dimostrato di far parte del gruppo di migranti espulsi verso il Sudan il 24 agosto 2016. Per tale ragione, la Corte ha ritenuto, all’unanimità, inammissibili i loro ricorsi in quanto manifestamente infondati.
Il quinto ricorrente (W.A.), invece, è risultato corrispondere ad uno dei soggetti che avevano subito l’espulsione collettiva. Per tale ragione il suo ricorso è stato ritenuto ammissibile. Ritenendo inammissibili le altre doglianze, la Corte ha solo preso in considerazione la possibile violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Tuttavia, non ha riscontrato alcuna violazione di tale disposizione nei confronti di W.A. Infatti, a differenza dei ricorrenti del primo caso (A.E. e T.B. c. Italia), che avevano ottenuto la protezione internazionale sulla base della loro storia personale e delle conseguenze per la loro vita in caso di rimpatrio, nei procedimenti interni W.A. aveva esplicitamente dichiarato di non voler richiedere la protezione internazionale. Solo successivamente alla presentazione del ricorso davanti alla Corte EDU era emerso che W.A. apparteneva ad una tribù perseguitata dal governo sudanese, informazione che non era a conoscenza delle autorità italiane al momento del rimpatrio. La Corte ha dunque ritenuto che le autorità italiane non abbiano violato il loro dovere di offrire garanzie effettive per proteggere W.A. dal respingimento arbitrario verso il suo paese d’origine.