di Adriana Raimondi
Con sentenza del 7 aprile 2022, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata nel caso Landi c. Italia (no. 10929/19) condannando l’Italia per la violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita).
Il caso riguarda l’inerzia delle autorità italiana nel proteggere una donna, la sig.ra Landi, e i suoi figli dalle violenze e i maltrattamenti inflittigli ripetutamente dal compagno, N.P., che avevano condotto all’omicidio del figlio di un anno e al tentato omicidio di lei.
In particolare, la ricorrente iniziava ad intrattenere una relazione con il suo partner nel 2010 senza essere a conoscenza del fatto che soffrisse di un disturbo bipolare da quando aveva vent’anni e che nel tempo aveva sofferto altresì di un disturbo ossessivo-compulsivo e aveva mostrato in diverse occasioni comportamenti violenti, tanto da avere a suo carico un ordine restrittivo nei confronti della sua precedente compagna.
La ricorrente e N. P. avevano due figli, una nata nel 2011 e l’altro nel 2017. Dal 2015 al 2018 la sig.ra Landi si recava ben quattro volte alla polizia in seguito alle violente aggressioni del compagno al fine di sporgere denunce, successivamente ritirate. In tutti i casi la polizia si attivava correttamente. L’autorità giudiziaria, invece, dava inizio tardivamente ad un unico procedimento per violenza domestica, senza neppure emettere alcun provvedimento per la protezione della signora Landi e dei suoi figli durante l’inchiesta.
L’ultima aggressione da parte di N.P. causava la morte per accoltellamento del figlio e il tentato omicidio della sig.ra Landi. N. P. veniva condannato a 20 anni di reclusione a ad un risarcimento nei confronti della sig.ra Landi e della figlia di 100.000 euro.
A fronte dei fatti su menzionati la ricorrente proponeva ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita) e dell’art. 14 CEDU letto in congiunzione all’art 2 CEDU (divieto di discriminazione).
Sotto il profilo relativo alla violazione dell’art. 2 CEDU, la sig.ra Landi affermava di aver presentato diverse denunce penali che l’autorità giudiziaria non aveva preso in seria considerazione, creando così un contesto di impunità favorevole alla ripetizione degli atti di violenza perpetrati dal suo partner. Le autorità, seppur avvertite, non avevano posto in essere le misure necessarie e appropriate per proteggere la vita della ricorrente e dei suoi figli. Il PM aveva avviato un’indagine solo nel 2018, rubricando la fattispecie come “violenze domestiche” e sottovalutando il pericolo per la vita della ricorrente e dei suoi figli.
La ricorrente invocava altresì la violazione dell’art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 2, sostenendo che la mancanza di protezione legislativa e di una risposta adeguata da parte delle autorità alle sue denunce nei confronti del partner costituivano un trattamento discriminatorio fondato sul sesso (così come riscontrato nel caso Talpis c. Italia).
Il governo, dal canto suo, affermava preliminarmente, sotto il profilo della ricevibilità del ricorso, il mancato esaurimento dei rimedi interni. Secondo il governo la ricorrente non aveva fatto valere la violazione dei suoi diritti umani dinanzi i tribunali interni e aveva ritirato le denunce presentate contro N.P., senza chiedere nelle sedi a opportune misure di protezione nei confronti suoi e dei suoi figli.
Nel merito il governo sosteneva che comunque le autorità non avrebbero potuto prevedere il gesto di N.P., soprattutto perché la stessa ricorrente aveva deciso di continuare a vivere con lui e aveva, come detto, ritirato le denunce precedentemente presentate. In relazione alla violazione dell’art. 14 CEDU, dopo aver illustrato le leggi esistenti in Italia a tutela delle donne vittime di violenza domestica, sottolineava che, secondo dati statistici precisi e affidabili, l’Italia risulta essere uno dei paesi europei con il minor numero di casi di femminicidio nonché il più avanzato nella lotta contro la violenza sulle donne.
La Corte nella sentenza in commento riteneva ricevibile il ricorso, respingendo così le eccezioni relative al mancato esaurimento dei rimedi interni (si veda su questo punto l’opinione concorrente del giudice Sabato). Secondo la Corte l’eccezione andava letta alla luce della sentenza Kurt c. Austria ([GC], no. 62903/15, § 109, 15 giugno 2021), distinguendo quindi tra rimedi destinati a porre riparazione a violazioni già commesse e quelli destinati a prevenire violazioni future. Sotto questo secondo profilo veniva constatata la mancanza in Italia di rimedi effettivi idonei a far valere l’inerzia dell’autorità pubblica nel porre in essere le necessarie misure preventive o protettive nei confronti di vittime di violenza domestica.
Superata l’eccezione di irricevibilità, la Corte riconosceva la violazione dell’obbligo positivo dello stato – nella fattispecie del PM – di adottare le misure preventive necessarie a proteggere un individuo la cui vita è minacciata da azioni criminali altrui ai sensi dell’art. 2 CEDU. Dichiarava invece non sussistente nel caso di specie la violazione dell’art. 14 CEDU letto congiuntamente all’art. 2 CEDU.