di Adriana Raimondi
Con sentenza pubblicata il 10 dicembre 2021, nel caso Abdi Ibrahim c. Norvegia (ricorso n. 15379/16), la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ribadito il principio per cui l’adozione che non tenga conto dei desideri della madre viola i suoi diritti umani.
In particolare, il caso originava dalla decisione delle autorità norvegesi di dare seguito all’adozione di un minore senza il consenso della madre, rifugiata somala, che pur non contestando la decisione di affidare il figlio ad un’altra famiglia, chiedeva che, nella scelta della famiglia affidataria, venisse preso in considerazione il background culturale e religioso del bambino.
La madre chiedeva infatti che il figlio fosse affidato ad una famiglia musulmana o comunque mantenesse un contatto con la sua cultura e la sua fede mussulmana.
Nonostante tale richiesta il bambino veniva affidato e poi definitivamente adottato, a seguito della decisione della Corte Suprema, da una famiglia cristiana, recidendosi così ogni legame con la sua famiglia d’origine e ogni possibilità per la madre di mantenere e coltivare un rapporto con il figlio.
A fronte di questa decisione la donna proponeva ricorso alla Corte europea dei diritti umani, sollevando la violazione degli artt. 8 e 9 CEDU, nonché dell’art. 2 Protocollo 1. La Corte, in una sentenza del 17 dicembre 2019, all’unanimità accoglieva la doglianza relativa alla violazione dell’art. 8 CEDU, della vita privata e familiare della ricorrente.
La ricorrente chiedeva però che la questione fosse rimessa alla Grande Camera, in quanto non era stata presa in considerazione autonomamente la violazione da lei sollevata relativa all’art. 9 CEDU (libertà di pensiero, coscienza e religione).
Dinanzi la Grande Camera la ricorrente faceva presente come avesse più volte espresso il desiderio che venisse mantenuta l’identità religiosa del figlio, che invece a seguito dell’adozione, veniva battezzato dalla sua nuova famiglia, senza nessuna possibilità di mantenere un legame con lei e con la sua cultura.
La Grande Camera, nella sentenza in commento, ribadisce che la fattispecie può ben essere considerata alla luce dell’art. 8, così come interpretato e applicato in relazione all’art. 9, non essendo necessario esaminare separatamente l’allegata violazione dell’art. 9.
In sintesi, la Grande Camera, ripercorrendo i principi espressi in sue numerose pronunce in materia, notava che, se vi è un certo consenso in relazione al fatto che le autorità nazionali abbiano un’obbligazione di mezzi e non di risultato per quanto riguarda la collocazione del minore in una famiglia che condivida la sua identità culturale, l’adozione dovrebbe comunque costituire un’extrema ratio cui ricorrere.
Nel caso di specie, la Corte, nel riconoscere la violazione del rispetto della vita privata e familiare della ricorrente, affermava che nel processo decisionale che ha portato alla rottura definitiva dei legami tra la ricorrente e il minore le autorità nazionali non davano sufficiente importanza al diritto della ricorrente al rispetto della sua vita familiare e all’interesse, suo e del minore, a mantenere le loro relazioni personali.
Di fatto, la Corte non rinveniva quegli elementi di eccezionale gravità tali da giustificare la rottura completa e definitiva dei rapporti tra la madre e il figlio, costituendo ius receptum il principio per cui “generally, the best interests of the child dictate, on the one hand, that the child’s ties with its family must be maintained, except in cases where the family has proved particularly unfit, since severing those ties means cutting a child off from its roots. It follows that family ties may only be severed in very exceptional circumstances and that everything must be done to preserve personal relations and, if and when appropriate, to “rebuild” the family”.