di Margherita Tommasini
Il 12 ottobre 2021, con sentenza n. 11625/17, la terza sezione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo si è pronunciata sul caso J.C e altri c. Belgio, trattando per la prima volta la questione dell’immunità della Santa Sede.
Nel luglio del 2011, trentasei vittime di abusi sessuali perpetrati da membri della Chiesa cattolica belga esercitavano un’azione collettiva dinanzi al Tribunale di primo grado di Gand contro, tra gli altri, la Santa Sede, rivendicando la responsabilità indiretta di quest’ultima, in qualità di committente rispetto alle modalità strutturalmente carenti con cui la Chiesa avrebbe affrontato il problema di tali abusi al suo interno.
Nell’ottobre 2013, il Tribunale di Gand rilevava la sua incompetenza nei confronti della Santa Sede, derivante dall’immunità di giurisdizione di cui essa gode. Tale decisione veniva successivamente confermata nel febbraio 2016 dalla Corte d’appello di Gand, la quale costatava che la Santa Sede gode di personalità giuridica propria sul piano internazionale, possedendo gli attributi riconosciuti ad uno Stato sovrano, ed è dunque destinataria dei diritti e doveri propri ad uno Stato sovrano, tra i quali l’immunità per gli acta iure imperii.
Sulla base di un’analisi dei principi del diritto internazionale pubblico, del diritto canonico e della prassi belga, la Corte d’appello riteneva che le colpe e le omissioni di cui la Santa Sede veniva accusata si fondassero su fatti rientranti appunto nell’esercizio delle funzioni pubbliche e rigettava la tesi dei ricorrenti secondo la quale i fatti rientrassero nell’eccezione al principio dell’immunità dello Stato. Si tratta di un’eccezione applicabile in procedimenti concernenti “un’azione di riparazione pecuniaria in caso di decesso o di lesione dell’integrità fisica di una persona, o in caso di danno o di perdita di un bene corporeo, dovuti a un atto o a un’omissione presumibilmente attribuibile allo Stato” (articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni; nello stesso senso, articolo 15 della Convenzione europea sull’immunità degli Stati). Questa eccezione si applica, tuttavia, solo se l’atto o l’omissione si è verificato, in tutto o in parte, nel territorio dello Stato del foro e se l’autore dell’atto o dell’omissione era presente in quel territorio al momento dell’atto o dell’omissione.
Nel respingere l’applicabilità di tale eccezione, la Corte d’Appello sosteneva che, tra l’altro, la condotta di cui la Santa Sede era direttamente accusata non era stata commessa sul territorio belga.
Dinanzi alla Corte Edu, i ricorrenti lamentavano una violazione dell’articolo 6§1 della Convenzione (diritto di accesso a un tribunale), in quanto l’immunità giurisdizionale della Santa Sede aveva impedito loro di far valere le loro pretese in sede civile.
In una pronuncia sostenuta da sei voti favorevoli e una dissenting opinion, la Corte ha statuito che l’incompetenza rilevata dai giudici belgi a conoscere l’azione di responsabilità civile intentata dai ricorrenti contro la Santa Sede costituisce una limitazione del diritto di accesso a un tribunale proporzionata rispetto agli scopi legittimi perseguiti. Pertanto, nel caso di specie non ha ravvisato una violazione dell’articolo 6§1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Nel costatare un’assenza di violazione dell’articolo 6§1 da parte del Belgio, la Corte ricordava che, se il diritto di accesso a un tribunale ha carattere non assoluto, le limitazioni che esso può subire devono perseguire uno scopo legittimo e rispondere ad un criterio di proporzionalità.
Secondo giurisprudenza costante della Corte, la concessione dell’immunità nei procedimenti civili persegue lo scopo legittimo di osservare il diritto internazionale al fine di promuovere le buone relazioni tra stati attraverso il rispetto della sovranità statale. Tale giurisprudenza afferma inoltre che le misure adottate da uno stato in conformità ai principi generalmente riconosciuti sull’immunità statale non possono, in linea di principio, essere considerate come una restrizione sproporzionata del diritto di accesso a un tribunale garantito dall’articolo 6 § 1.
Con riferimento al caso di specie, la Corte osservava, da un lato, come le valutazioni della Corte d’appello fossero in linea con i principi e la prassi internazionale in materia di immunità, e dall’altro che allo stato attuale del diritto internazionale non è possibile affermare che gli stati non godono più dell’immunità giurisdizionale in casi di gravi violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale umanitario.
Interessante è l’argomentazione sostenuta nell’opinione dissenziente del Giudice Pavli con riguardo all’eccezione al principio di immunità statale invocata dai ricorrenti.
Se la maggioranza considerava non manifestamente irragionevole la valutazione dei tribunali belgi nel rigettare l’applicabilità di tale eccezione al caso di specie, avendo qualificato gli atti contestati come acta iure imperii, il Giudice Pavli affermava che l’articolo 12 della Convenzione del 2004 copre tanto agli atti iure gestionis quanto gli atti iure imperii e che il danno invocato nel caso in questione – vale a dire l’abuso di centinaia di bambini nell’arco di diversi decenni, presumibilmente facilitato dal mancato intervento della Santa Sede – si era verificato nello Stato del foro, così come i vari tentativi di insabbiamento.
Pertanto, il Giudice Pavli riteneva che i giudici nazionali non avessero spiegato chiaramente il quadro giuridico seguito nel determinare se le azioni dei vescovi belgi potessero essere attribuiti alla Santa Sede. In più, nel constatare che non c’era alcuna responsabilità indiretta della Santa Sede, la Corte d’appello di Gand aveva adottato un ragionamento piuttosto formalistico e astratto, omettendo di rispondere alle gravi accuse dei ricorrenti di un coinvolgimento diretto e significativo della Santa Sede nella gestione degli abusi sessuali da parte di sacerdoti all’interno della Chiesa belga.