di Adriana Raimondi
Con la sentenza M.S. c. Italia del 7 luglio 2022 (n. 32715/19) – appena successiva alla sentenza resa dalla Corte EDU nel caso De Giorgi c. Italia del 16 giugno 2022 (n. 23735/19) – la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano per la violazione, sostanziale e procedurale, dell’articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamenti disumani o degradanti), in ragione dell’incapacità delle autorità italiane di proteggere una donna dalle ripetute minacce e violenze inflittegli dal marito.
Nella fattispecie, la ricorrente, vittima di violenza domestica, a partire dal 2004, sporgeva più volte denuncia nei confronti del marito.
Nel 2007, la ricorrente veniva aggredita con un coltello dal marito durante un incontro svoltosi alla presenza del suo avvocato e finalizzato a discutere della separazione in corso. L’aggressore mancava la ricorrente, colpendo invece il suo avvocato. M.S. sporgeva, quindi, nuovamente denuncia. Il marito veniva condannato dal Tribunale di primo grado per le lesioni inflitte all’avvocato e i maltrattamenti perpetrati nei confronti della ricorrente, ma poi veniva successivamente assolto nel 2014 dalla Corte d’appello per l’intervenuta prescrizione dei reati ascrittigli.
Tra il 2007 e il 2013 la ricorrente presentava diverse denunce asserendo di essere stata più volte aggredita, sia fisicamente che verbalmente, dal marito che la seguiva e la chiamava ripetutamente manifestando un comportamento persecutorio. Solo nel 2008 veniva disposta una misura cautelare nei confronti del marito della ricorrente.
I procedimenti penali iniziati nei confronti del marito si concludevano quasi tutti con l’assoluzione dell’imputato per intervenuta prescrizione dei reati ascrittigli.
Solo nel 2020, quindi sedici anni dopo la prima denuncia sporta della ricorrente, il Tribunale condannava il marito a tre anni di carcere per molestie.
Alcuni procedimenti nei confronti del marito risultano tuttora pendenti.
In virtù dei fatti sopra esposti, la ricorrente adiva la Corte europea dei diritti dell’uomo facendo valere la violazione degli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) CEDU. La ricorrente lamentava, in particolare, la mancanza di protezione e assistenza da parte dello Stato convenuto a seguito della violenza domestica inflittale dal marito e il mancato rispetto delle garanzie procedurali di cui all’articolo 3, in quanto, essendo stati dichiarati prescritti diversi reati, le autorità non agivano con la necessaria tempestività e diligenza.
La Corte, nella sentenza in commento, osservava che, nonostante l’adeguatezza della legislazione italiana nell’offrire protezione alle vittime di violenza, in questo caso si riscontrava chiaramente una violazione dell’art. 3 CEDU tanto nel suo aspetto sostanziale, tanto in quello procedurale.
In particolare, la Corte distingueva due periodi. Il primo, dal 2007 al 2008, in cui le autorità italiane non avevano disposto alcuna misura nei confronti del marito della ricorrente, incorrendo perciò nella violazione sostanziale dell’art. 3 della Convenzione; il secondo, dal 2008 al 2017, in cui, secondo la Corte, le autorità italiana avevano compiuto un’adeguata valutazione del rischio di violenza cui era sottoposta la ricorrente, dando inizio a ben tre procedimenti penali. Tali procedimenti si concludevano con l’assoluzione per intervenuta prescrizione. Quest’ultima circostanza, a parere della Corte, dimostrava che le autorità italiane non si erano attivate prontamente ed efficacemente per proteggere la ricorrente, incorrendo, così, nella violazione dell’aspetto procedurale dell’art. 3 CEDU.
A parere della Corte, non può dirsi sussistente una protezione efficace contro i maltrattamenti, compresa la violenza domestica, nel momento in cui il procedimento penale si conclude a causa dello spirare del termine di prescrizione per l’inattività giudiziaria.
La Corte ammoniva, dunque, l’Italia affermando il principio per cui « De ce point de vue, elle estime que les infractions liées aux violences domestiques, doivent figurer, même si elles sont commises par des particuliers, parmi les plus graves pour lesquelles la jurisprudence de la Cour considère qu’il est incompatible avec les obligations procédurales découlant de l’article 3 que les enquêtes sur ces délits prennent fin par l’effet de la prescription en raison de l’inactivité des autorités (en ce qui concerne l’octroi de l’amnistie en cas de violence sexuelle commises par des particuliers voir E.G. c. République de Moldova, précité, § 143, paragraphe 136 ci-dessus) ».
Di fatto, l’Italia è stata invitata a ripensare il sistema della prescrizione così come operante nei reati di violenza domestica, reati che spesso restano impuniti a causa dei ritardi dei Tribunali.
Nonostante non sia stata dichiarata la violazione ulteriore dell’art. 14 CEDU, la pronuncia in commento non può che essere letta unitamente alla decisione del Comitato CEDAW (Comitato ONU garante dell’applicazione della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne) del 18 luglio u.s., che, in un caso di violenza domenestica e di stupro (perpetrato dall’agente incaricato a svolgere le indagini relative alla violenza domestica), condannava l’Italia per la violazione degli artt. 2 (b)-(d) e (f), 3, 5 e 15 della CEDAW.
La sensazione – a fronte delle numerose pronunce che ultimamente hanno coinvolto l’Italia in vicende del genere – è che il sistema giudiziario stia fallendo nel proteggere le donne vittime di violenza domestica o di stupro per la presenza di un sessismo ormai istituzionalizzato, che porta, da un lato, a sottovalutare (come nei casi Talpis c. Italia, Landi c. Italia, De Giorgi c. Italia, cui si aggiunge quello in commento) i rischi emotivi e fisici della violenza domestica e che, dall’altro, guida troppi Tribunali nella stesura delle proprie sentenze realizzando una vera e propria vittimizzazione secondaria delle parti offese (si veda il caso J.L. c. Italy del 27 maggio 2021, o il caso sottoposto all’attenzione del comitato CEDAW e a cui si è sopra si è fatto riferimento).