di Valentina De Giorgio
Con sentenza del 4 luglio 2024, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sul caso A.Z. c. Italia (ricorso n. 29926/20), riguardante il mantenimento in carcere di un individuo affetto da disturbi psichiatrici nonostante i numerosi tentativi di suicidio.
Il ricorrente A. Z., nel periodo tra maggio e giugno 2019, a seguito di un tentativo di suicidio, veniva ricoverato nell’ospedale di Bari, dove gli venivano diagnosticati una forma grave di depressione e un disturbo della personalità. Nel frattempo, lo stesso veniva condannato per numerosi reati, per cui il 18 giugno 2019 veniva trasferito nel reparto detentivo dell’ospedale di Bari e, successivamente, veniva arrestato e collocato all’interno del carcere di Bari a regime di stretta sorveglianza. Nel periodo di detenzione presso tale struttura, dal 4 luglio 2019 al 18 giugno 2020 e dal 29 luglio 2020 al 3 settembre 2020, i medici del carcere riportavano che il trattamento farmacologico seguito da A. Z. non appariva efficace, ma che comunque lo stesso risultava stabile. Ciononostante, in tale periodo il ricorrente tentava altre quattro volte di togliersi la vita. Pochi giorni prima dell’arresto, gli avvocati del ricorrente avevano formulato istanza di detenzione domiciliare, basata sulle risultanze di una relazione psichiatrica di parte che affermava l’incompatibilità dei disturbi psichiatrici di A. Z. con la detenzione in carcere. Il giudice, nel settembre 2019, ordinava che il ricorrente venisse posto sotto osservazione psichiatrica, ma il provvedimento per molto tempo non trovava esecuzione in ragione dell’impossibilità di individuare posti disponibili nelle “articolazioni carcerarie per la tutela della salute mentale” (ATSM). Solo il 18 giugno 2020 A. Z. veniva trasferito nell’ATSM della prigione di Spoleto e veniva sottoposto all’osservazione psichiatrica, la quale si concludeva con una relazione che attestava l’incompatibilità del paziente con il regime carcerario. Al termine del periodo di osservazione, il 29 luglio 2020 A. Z. veniva nuovamente collocato presso il carcere di Bari, e il successivo 3 settembre veniva trasferito presso l’ATSM della prigione di Santa Maria Capua Vetere. Dopo due settimane, A. Z. tentava nuovamente il suicidio.
Nel frattempo, il 21 luglio 2020 gli avvocati di A. Z. ricorrevano davanti alla Corte europea dei diritti umani per la violazione degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della CEDU, formulando altresì istanza per ottenere misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte, che veniva rigettata.
Ritenendo inammissibile la doglianza relativa all’art. 5 § 1 CEDU e assorbita quella relativa all’art. 2 CEDU, la Corte di Strasburgo ha riscontrato la violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU. In particolare, i giudici europei, richiamando la relazione dell’ATSM della prigione di Spoleto che riteneva la salute del ricorrente “scarsamente compatibile” con il regime carcerario, hanno affermato che, nel caso di specie, spettava al Governo dimostrare che il ricorrente era adeguatamente trattato per i propri disturbi psichiatrici nel corso della detenzione. Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto che, “per quanto riguarda il primo periodo di detenzione (tra il 4 luglio 2019 e il 3 settembre 2020), tenendo conto anche dei ritardi nella valutazione dello stato di salute del ricorrente, vi sia stata una violazione dell’articolo 3 della Convenzione”, mentre “per quanto riguarda il secondo periodo di detenzione (dopo il 3 settembre 2020), non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 3 della Convenzione.”
La decisione in parola è preceduta, ad appena un mese di distanza, dalla sentenza del 6 giugno 2024, con cui la Corte di Strasburgo si è pronunciata sul caso Cramesteter c. Italia (ricorso n. 19358/17), condannando lo Stato italiano per la violazione dell’art. 5 CEDU (diritto alla libertà e alla sicurezza) per aver detenuto il ricorrente all’interno di una struttura REMS (“residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”) oltre i termini di legge.
Si tratta, dunque, di un’ulteriore condanna dell’Italia per l’inadeguatezza del sistema di detenzione nei confronti di detenuti con disturbi psichiatrici.
Appare evidente l’urgente necessità di una tempestiva e complessiva riforma del sistema dell’internamento detentivo, peraltro indicata chiaramente nella sentenza n. 22/2022 della Corte costituzionale, con la quale veniva rivolto un monito al legislatore in tal senso. Tale appello, a distanza di due anni, è rimasto privo di seguito, con il risultato che il sistema vigente continua ad essere fortemente inefficace a fornire supporto ai detenuti afflitti da disturbi psichiatrici.