di Adriana Raimondi
La terza sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 26 ottobre 2021, si pronunciava all’unanimità sul caso León Madrid c. Spagna (ricorso n. 30306/13), rilevando la violazione dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) letto congiuntamente all’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Il caso riguardava la richiesta della ricorrente di invertire l’ordine dei cognomi con cui la figlia, nata nel 2005, era stata registrata. Infatti, al momento della nascita della bambina, in Spagna era in vigore l’art. 194 del Regolamento d’applicazione della legge sulla registrazione delle nascite, dei matrimoni e dei decessi, poi emendata dalla legge n. 20/2011, che prevedeva, in caso di disaccordo tra i genitori, la regola per cui il cognome paterno dovesse precedere automaticamente quello materno.
Nella fattispecie, a seguito di una breve relazione con J.S.T.S., la ricorrente rimaneva incinta e interrompeva poco dopo ogni contatto con J.S.T.S, vista la sua insistenza affinché non portasse a termine la gravidanza. Al momento della nascita la bambina non veniva immediatamente riconosciuta dal padre e veniva così registrata con entrambi i cognomi materni.
Nel 2006 J. S. T. S., intraprendeva però un giudizio per il riconoscimento della paternità, al termine del quale, oltre al riconoscimento della suddetta, otteneva che alla figlia fosse attribuito il suo cognome seguito da quello materno. La ricorrente interponeva invano appello avverso tale decisione e il procedimento si concludeva nel 2012.
La ricorrente adiva dunque la Corte europea dei diritti dell’uomo, invocando la violazione dell’artt. 14 e 8 della CEDU e dell’art. 1 Protocollo 12 della Convenzione. La madre sottolineava come ad essere messo in dubbio non fosse il diritto di entrambi i genitori di trasmettere il proprio cognome alla figlia, bensì la ragionevolezza dell’art. 194, che, nel determinare l’automaticità della successione dei cognomi, prima paterno e poi materno, aveva una matrice patriarcale, integrando così una chiara discriminazione fondata sul genere. Tanto è, osservava ancora la ricorrente, che il legislatore poneva successivamente rimedio a questa situazione con la nuova legge sullo stato civile (legge 20/2011 del 21 luglio 2011), prevedendo che in caso di disaccordo tra i genitori spetti al giudice decidere sull’ordine dei cognomi, tenendo conto del con il superiore interesse del minore.
Lo Stato convenuto, nel contestare la posizione di parte ricorrente, affermava che nessuna discriminazione di genere potesse essere rilevata nel diritto spagnolo in materia di cognomi, né all’epoca dei fatti in causa né al giorno d’oggi, nella misura in cui i neonati portano i cognomi di entrambe le linee familiari d’origine. Il Governo argomentava inoltre che l’automaticità nella successione dei cognomi costituiva una soluzione temporanea in caso di disaccordo tra i genitori, in quanto il minore, volendo, avrebbe comunque potuto modificarne l’ordine una volta raggiunto il diciottesimo anni d’età.
La Corte, nella sentenza in commento, accoglieva la posizione della ricorrente, riconoscendo la sussistenza della violazione dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) da leggersi congiuntamente all’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare). L’ applicazione della legge all’epoca vigente, che non consentiva alle Corti domestiche di tenere in debita considerazione la specificità del caso, non può giustificarsi alla luce della Convenzione.
Due individui trovatisi in una posizione simile, venivano di fatto trattati differentemente sulla esclusiva base del genere di appartenenza, integrandosi in questo modo una discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU.
In sintesi, a parere della Corte, il fatto che i giudici non abbiano saputo derogare alla disciplina allora in vigore, costituisce senz’altro una discriminazione nei confronti delle donne: infatti se il posizionamento del cognome paterno per primo può essere giustificato alla luce della certezza del diritto, lo stesso scopo può essere perseguito posizionando per primo il cognome materno. La differenza di trattamento non risulta quindi giustificabile, né è stata giustificata sufficientemente dal governo, integrandosi la violazione dell’art. 14 CEDU, in congiunzione con l’art. 8 CEDU.