di Federico Cappelletti
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 17 giugno 2021 ha depositato due pronunce che hanno certificato la legittimità al metro convenzionale del decreto legislativo n. 235/2012, la c.d. Legge Severino, nella parte in cui impone l’incandidabilità alla carica di parlamentare o a cariche elettive regionali a fronte della condanna per determinati reati, nonchè la decadenza dal mandato qualora l’incandidabilità sia sopravvenuta.
In particolare, nel caso Miniscalco c. Italia (n. 55093/13), il ricorrente lamentava come la sua esclusione dalla candidatura alle elezioni regionali del 2013 – derivante dall’entrata in vigore, nel gennaio 2013, del decreto legislativo n. 235/2012 – a causa di una precedente condanna per abuso d’ufficio passata in giudicato nel 2011, avesse comportato l’applicazione retroattiva di una norma sostanzialmente penale più severa con violazione dell’art. 7 CEDU (nulla poena sine lege), nonché limitato illegittimamente il diritto all’elettorato passivo in spregio dell’art. 3 del Protocollo n. 1 (diritto a libere elezioni).
Analoghe doglianze – oltre a quella circa l’asserita violazione dell’art. 3 del Protocollo 1 considerato insieme all’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) e dell’art. 13 CEDU (diritto a un ricorso effettivo) – erano oggetto, altresì, del ricorso Galan c. Italia (n. 63772/16), relativo alla decadenza dell’ex Presidente della Regione del Veneto dalla carica di deputato in virtù dell’ineleggibilità determinata dalla c.d. Legge Severino in conseguenza della condanna per corruzione, definitiva nel 2015, nella vicenda MOSE.
La Corte di Strasburgo, con riferimento alla dedotta violazione del principio di legalità convenzionale, ha escluso la finalità punitiva tanto dell’incandidabilità quanto della decadenza che, viceversa, sono state ritenute funzionali a preservare il buon funzionamento e la trasparenza dell’amministrazione, innnestandosi in un contesto più ampio di contrasto alla corruzione ed all’infiltrazione della criminalità organizzata nella pubblica amministrazione. Ha, inoltre, valorizzato la giurisprudenza della Corte Costituzionale che in più occasioni ha stabilito come le misure in oggetto non possano considerarsi né alla stregua di una pena, ancorché accessoria – dal momento che comportano conseguenze esclusivamente sull’esercizio del diritto all’elettorato passivo – né come effetto penale della condanna. L’incandidabilità e la decadenza dal mandato, in ultima analisi, non deriverebbero dalla gravità dei reati contestati e dalla relativa condanna comminata dalla giurisdizione penale, ma dal venir meno in capo al destinatario delle misure della capacità morale che è una condizione essenziale per accedere alle funzioni di rappresentante degli elettori. Di qui la declaratoria di irricevibilità dei due distinti ricorsi sul punto.
Del pari, i Giudici alsaziani hanno escluso all’unanimità, in entrambi i casi, la violazione del diritto a libere elezioni sull’assunto che le sanzioni in parola non appaiono sproporzionate rispetto allo scopo legittimo perseguito dalle autorità italiane di preservare il buon funzionamento della pubblica amministrazione; vieppiù, hanno valutato l’applicazione del divieto di candidarsi alle elezioni coerente con l’obiettivo dichiarato dal legislatore di escludere le persone condannate per reati gravi dalle procedure elettorali e proteggere, in tal modo, l’integrità del processo democratico. La Corte ha, altresì, accettato la decisione del legislatore italiano di utilizzare la data in cui la condanna penale è passata in giudicato come base per l’applicazione dell’esclusione, piuttosto che la data in cui i reati sono stati commessi. Sulla base, pertanto, di queste considerazioni – che avallano la compatibilità delle misure in parola col principio di proporzionalità tenuto, altresì, conto della circostanza che hanno una durata limitata nel tempo ben potendo essere revocate qualora intervenga la riabilitazione – nella sentenza Miniscalco c. Italia non è stata ravvisata la sussistenza della violazione dell’art. 3 del Protocollo 1 alla CEDU, mentre la decisione Galan c. Italia ha ritenuto la manifesta infondatezza della specifica doglianza.
Con riferimento a quest’ultimo caso la Corte è giunta alla medesima conclusione anche in relazione a due ulteriori asserite violazioni: quella del divieto di discriminazione in relazione al diritto a libere elezioni, posto che la c.d. Legge Severino indicava chiaramente le situazioni oggettive che, giustificando l’applicazione della misura in funzione dei reati commessi e delle pene inflitte, erano alla base della decisione di privare il ricorrente del suo incarico parlamentare, adottata dalla Camera dei deputati in applicazione dell’articolo 66 della Costituzione. Infine, tenuto conto delle garanzie offerte dalla procedura parlamentare di “triplice convalida” – Comitato permanente per le incompatibilità, le ineleggibilità e le decadenze, Commissione elettorale e Camera dei deputati – i Giudici europei hanno convenuto sul fatto che la Convenzione non possa esigere il controllo giurisdizionale di una decisione adottata dal Parlamento in virtù di una riserva di competenza costituzionale, per ciò stesso ritenendo insussistente la violazione dell’art. 13 CEDU.
Con le pronunce segnalate, ed, in particolar modo, per la sostanziale identità di posizioni, la decisione Galan c. Italia, che rappresentano a tutti gli effetti il sequel del ricorso Berlusconi c. Italia (n. 58428/13) – come noto, cancellato dal ruolo su richiesta del ricorrente per aver, nel frattempo, ottenuto la riabilitazione dopo la discussione avanti la Grande Camera nel mese di novembre del 2017 – la Corte ha potuto, finalmente, fornire una risposta al quesito rimasto, sino ad oggi, in sospeso sulla compatibilità o meno alla Convenzione della c.d. Legge Severino risolvendosi, in virtù di quanto evidenziato, per la sua ortodossia.