Roma, 16 maggio 2013

Ci sono almeno due concetti che potrebbero essere evitati nelle cronache ormai quotidiane sulla violenza contro le donne.

Il primo è il concetto di “emergenza”.  C’è uno strano automatismo nel nostro Paese, secondo il quale se episodi analoghi e gravi si ripetono con una certa frequenza vuol dire che si deve rispondere con una logica emergenziale. Ed invece nel bollettino quotidiano dell’orrore contro mogli, fidanzate o amanti c’è una violenza stratificata e con radici profonde. Più aumentano i casi, più si dovrebbe ragionare in termini di problema strutturale e quindi culturale.

Il secondo concetto è quello di “raptus”, riportato spesso nei titoli dei  giornali. Quando però si va a leggere il pezzo si capisce che di improvviso non c’è stato proprio nulla. Ciò che è stato definito “raptus” era invece un gesto ampiamente annunciato. Penso ad uno degli ultimi casi: Rosaria Aprea ventenne di Caserta,  ridotta in fin di vita da un fidanzato geloso fino all’ossessione. Stordita dall’anestesia, ha avuto la forza di indicare il suo compagno come l’autore di quella violenza. Lo stesso che  già due anni fa l’aveva mandata in ospedale, a furia di calci e pugni.

Ed è stata forse improvvisa, la morte di Maria Immacolata Rumi qualche settimana fa a Reggio Calabria? E’ arrivata in ospedale in fin di vita per le percosse subite. Il marito ha raccontato di averla trovata dolorante e “intronata” una volta tornato a casa. Ma  gli stessi  figli hanno dichiarato: “nostro padre l’ha picchiata per tutta la vita, era geloso, non voleva che lavorasse”.  Ecco perché parlare di morti improvvise appare addirittura grottesco. Sette donne su 10, prima di essere uccise, avevano denunciato una violenza o avevano chiamato il 118. E allora perché non sono state protette?

Dunque il più delle volte sarebbe meglio parlare di assassinii  premeditati e di omissioni da parte di chi avrebbe potuto e dovuto tutelare le vittime. 

Il comitato “Se non ora quando” di Reggio Calabria dopo l’omicidio di Maria Immacolata si è chiesto:  tutto questo si sarebbe potuto evitare se fossero state rifinanziati  case-rifugio o centri antiviolenza? Non potremo mai sapere se Maria Immacolata  si sarebbe rivolta a queste strutture,  ma di certo sappiamo che sono troppo poche in Italia. E che sono ancora meno quelle in grado di offrire ospitalità alle donne. Si parla di un posto ogni 10mila abitanti. Dunque non c’è più tempo da perdere: i soldi per rifinanziare i centri antiviolenza devono essere trovati.

Alcuni mi fanno notare che sarebbe utile introdurre un’aggravante per i casi di femminicidio. Altri invece sottolineano che non servono nuove norme, ma un’effettiva applicazione di quelle già esistenti.  Se è così, allora bisogna capire dove e perché si inceppa il meccanismo dell’attuale legislazione. Si potrebbe dunque immaginare una sorta di monitoraggio dell’applicazione delle norme in materia di violenza alle donne.  Monitoraggio che non rientra nelle mie competenze di Presidente della Camera, ma che mi farò carico di sottoporre alla competente  commissione Giustizia, presieduta dall’onorevole Donatella Ferranti, della quale conosco  sensibilità e  impegno su questo tema. Intanto può servire che l’Italia ratifichi la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne: il 27 di maggio andrà in aula alla Camera come richiesto dalle deputate dei più vari gruppi politici.

C’è poi la questione della violenza via web. Ciò che mi sta a cuore è che si eviti l’equazione secondo cui, se le minacce, gli insulti sessisti avvengono sulla rete sono meno gravi. Non è così: la rete invece amplifica e pensare di minimizzare vuol dire non aver capito la portata del danno che dal web può derivare sulla vita reale delle donne. Questo non significa, lo ripeto, invocare un bavaglio. Semplicemente far sì che le norme già esistenti possano trovare effettiva applicazione anche per la rete. Oggi invece false identità o server collocati all’altro capo del mondo offrono un comodo riparo.

Infine, l’utilizzo del corpo della donna nella  pubblicità e nella comunicazione. L’Italia è tappezzata di manifesti di donne discinte ed ammiccanti, che esibiscono le proprie fattezze per vendere un dentifricio, uno yogurt  o un’automobile. In tv i modelli femminili che vengono proposti in prevalenza sono la casalinga e la donna-oggetto, possibilmente muta e semi-nuda.  Da lì alla violenza il passo è breve. Se smetti di essere rappresentata come donna e vieni rappresentata esclusivamente come corpo-oggetto, il messaggio che passa è chiarissimo: di un oggetto si può fare ciò che si vuole. E invece è proprio a tutto questo che bisogna dire no.

Vorrei farlo usando le parole di una donna, una poetessa messicana, Susanna Chavez. Per anni si era battuta contro rapimenti, violenze e femminicidi nella sua città, Juarez. Un impegno che ha pagato con la vita, due anni fa è stata uccisa  anche lei nello stesso modo delle vittime che aveva tentato di difendere. “Ni una mas”,  era il suo slogan, “Non una di più” .

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