di Sabrina Izzo
Il 14 gennaio scorso, l’opinione pubblica colombiana è stata profondamente scossa dall’uccisione di Breiner David Cucuñame, un attivista per l’ambiente di soli quattordici anni appartenente alla comunità indigena Nasa. Impegnato in una ronda per conto della Indigenous Guard, un gruppo non armato dedito alla tutela ed alla conservazione delle terre ancestrali, Cucuñame è stato vittima di alcuni colpi di arma da fuoco nel corso di un incontro ravvicinato con quelli che la guardia ha successivamente identificato come probabili membri dissidenti delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC).
Si tratta di una delle tante storie di violenza che da tempo caratterizzano la quotidianità del paese, nonostante gli accordi di pace siglati nel 2016 dall’allora presidente Juan Manuel Santos e dal leader delle FARC Rodrigo Londoño Echeverri, noto ai più come Timochenko. Pensati per porre fine al sanguinoso conflitto civile che ha interessato la Colombia sin dalla fine del diciannovesimo secolo, gli accordi di pace di Bogotá si sono in verità rivelati sostanzialmente fallaci: la conseguenza primaria della firma, invero, è stata una rielaborazione confusa della geografia del conflitto stesso.
Nelle zone rurali del paese, alla presenza delle milizie afferenti alle FARC si è sostituita quella di nuovi gruppi armati interessati al controllo del territorio ed ugualmente dediti ad una logica economica estrattivista estremamente dannosa per l’ecosistema colombiano. Non deve dunque sorprendere quanto evidenziato dal rapporto di Global Witness del settembre scorso, secondo il quale tra le vittime più frequenti degli scontri tra movimenti armati e civili figurano principalmente leaders sociali e ambientalisti. I dati riportati all’interno del rapporto, difatti, chiariscono come nel 2020 la Colombia sia stato il paese con il maggior numero di omicidi di “land and enviromental defenders”, spesso anche vittime di illeciti quali sparizioni forzate, tortura, violenza sessuale e minacce. Tale andamento, sebbene con qualche – in verità trascurabile – miglioramento, è stato riconfermato anche in merito al 2021: i difensori dei diritti umani e dell’ambiente uccisi in Colombia nel corso dell’anno passato sono stati ben 145, a fronte dei 180 registrati per il 2020.
Per completare il quadro proposto occorre poi considerare la circostanza per cui ad animare le fila degli attivisti colombiani sono principalmente esponenti di comunità indigene ed afrodiscendenti, da sempre impegnate nella tutela dei territori che abitano dalle incursioni di gruppi armati di diversa matrice. Naturalmente, quanto detto si traduce in una maggiore vulnerabilità delle categorie citate di cui è imperativo tenere conto nell’analizzare il panorama colombiano e le violazioni dei diritti umani che da troppo tempo interessano il paese.