di Sabrina Izzo
Le scelte delle aziende hanno acquisito una rilevanza sempre maggiore nell’esame delle conseguenze della nuova fase del conflitto russo-ucraino, apertosi con l’aggressione di Mosca ai danni dell’Ucraina del 24 febbraio scorso.
Invero, premesso che l’impatto dell’attività di impresa sui diritti umani è al centro dell’attenzione della comunità internazionale ormai da alcuni anni, il dibattito odierno in materia sembra essersi orientato verso una necessaria analisi di tale impatto in contesti nazionali caratterizzati dalla presenza di un conflitto armato.
In tal senso, il ragionamento segue il filo conduttore dei Principi guida onusiani su imprese e diritti umani del 2011: il Principio 17, in particolare, chiarisce che al fine di identificare, prevenire e mitigare gli effetti negativi sui diritti umani e per rendere conto del modo in cui questi impatti vengono affrontati, le imprese dovrebbero adottare procedure di due diligence. In tal senso, ci si riferisce ad attività specifiche di valutazione, monitoraggio, de-risking e pianificazione.
Ancora, il Principio 17 stabilisce che i rischi per i diritti umani connessi all’attività di impresa possono cambiare con l’evolvere delle attività e del contesto operativo di quest’ultima: naturalmente, una situazione di conflitto determina la necessità di attuare una cosiddetta heightened due diligence, o vigilanza rafforzata.
Nel corso degli ultimi mesi, un gran numero di multinazionali ha infatti avviato procedimenti di recisione delle relazioni commerciali comprendenti partner russi, anche indirettamente. Si tratta di un vero e proprio esodo delle aziende che vede la Russia progressivamente isolata: alla pressione economica esercitata dalle sanzioni deliberate a danno di Mosca si è dunque aggiunto il peso di un economic warfare privato di proporzioni inedite.
Tra le aziende che hanno preso le distanze dalla Russia figurano giganti quali Deloitte, Boeing ed Ikea, che hanno stabilito la cancellazione di progetti o la riallocazione di risorse nell’ambito di rapporti commerciali siglati con attori russi. In questo senso, si può certamente parlare di sanzioni del tutto autonome attuate in quella che sembra essere una “over-compliance” con gli standard fissati in materia di due diligence da strumenti quali i Principi guida delle Nazioni Unite.
Se la volontà etica di non prendere parte, seppur indirettamente, a violazioni dei diritti umani potrebbe certamente giocare un ruolo, la ragione primaria di questo fenomeno può verosimilmente essere individuata nel timore delle aziende di subire shock o “punizioni” reputazionali. A questo proposito, basti pensare alla hall of shame redatta dal Chief Executive Leadership Institute della School of Management di Yale che ha difatti stilato una lista esaustiva delle grandi imprese multinazionali, assegnando a queste ultime un punteggio da A ad F volto a quantificare l’intensità dei processi di due diligence messi in atto per far fronte agli impatti dell’attività commerciale nel conflitto russo-ucraino.
Le aziende sono dunque interessate a dimostrare la totale distanza e a scongiurare ogni aspetto di di complicità con le violazioni dei diritti umani consumatesi nel corso degli scontri prendendo le distanze da Mosca. A completare il quadro concorre anche la possibilità di ulteriori sanzioni economiche a danno della Russia sancite dalla Comunità internazionale: per evitare il riverbero negativo di un nuovo round sanzionatorio, infatti, le imprese preferiscono recidere le relazioni commerciali potenzialmente colpite.
Infine, un ulteriore aspetto da valutare attentamente riguarda l’effetto delle scelte delle aziende sulla popolazione russa, cui non possono certamente essere imputate le violazioni in questione.