di Valentina De Giorgio
Con ordinanza depositata all’udienza del 18 marzo scorso, la Corte d’Assise di Roma si è pronunciata sulle questioni pregiudiziali e preliminari sollevate per conto degli imputati nel caso Regeni, rigettandole.
Il processo a carico dei quattro agenti della National Security egiziana è stato “riavviato” a seguito della sentenza n. 192 del 26 ottobre 2023 della Corte Costituzionale, la quale aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, così come modificato dalla riforma Cartabia, nella parte in cui non permette al giudice di procedere in assenza dell’imputato per delitti commessi mediante atti di tortura, così come definiti dalla Convenzione di New York contro la tortura del 1984, in quei casi in cui lo Stato di appartenenza dell’imputato stesso si rifiuti di collaborare, rendendo impossibile ottenere la prova che l’imputato sia effettivamente a conoscenza del processo pendente a suo carico.
La sentenza della Corte Costituzionale, affermando che la disciplina del “processo in absentia” (processo in assenza dell’imputato) non può risolversi in una immunità di fatto ostativa all’accertamento dei crimini di tortura, ha effettivamente sbloccato il processo a carico dei quattro agenti, precedentemente arenatosi a causa della mancata collaborazione del governo egiziano, il quale non aveva comunicato gli indirizzi degli accusati, che, dunque, risultavano irreperibili.
I difensori di questi ultimi, durante l’udienza del 20 febbraio 2024, avevano sollevato eccezioni riguardanti la sussistenza della giurisdizione dello Stato italiano, soprattutto in relazione all’operatività del principio di irretroattività della legge penale «a fronte dell’introduzione delle fattispecie specifiche di cui agli artt. 613 bis. e 613 ter. c.p. solo attraverso norme successive ai fatti, ossia con legge 14/7/2017, n. 110». Ulteriori obiezioni della difesa riguardavano le posizioni dei tre restanti imputati, a cui è contestato l’unico reato di sequestro di persona aggravato dalla qualità di pubblici ufficiali e non reati lesivi dell’integrità fisica del Regeni, la cui condotta non rientrerebbe, dunque, nell’«ambito definitorio internazionale della “tortura” offerto dall’art. 1 CAT, quale recepito dalla legge nazionale».
Sul primo punto, la Corte d’Assise di Roma ha ritenuto che la norma del Codice penale che incrimina la tortura (art. 613 bis c.p.), introdotta nell’ordinamento italiano nel 2017, contenga solo l’esplicitazione successiva di un concetto già esistente nell’ordinamento italiano all’epoca dei fatti, risalenti al 2016. Richiamando le parole della Corte d’Assise nell’ordinanza in parola, le condotte contestate ad uno degli imputati «di inflizione al corpo di Giulio Regeni di gravi lesioni personali di natura fisica all’origine dell’indebolimento e della perdita permanente di più organi attraverso strumenti di tortura e mezzi contundenti di varia natura […] sino a cagionarne la morte, con la connessa contestazione circostanziale delle aggravanti delle sevizie e della crudeltà, quand’anche rubricate nell’unica fattispecie che al tempo lo consentiva in attuazione del principio di legalità (ossia gli artt. 582 – 583 n. 2 e 585 anche in relazione agli artt. 576 n.2, 61 nn. 1), 4) e 9), c.p.) possono agevolmente ricomprendersi nel concetto più puro e minimale di “tortura”, così come allora vivente nell’ordinamento e semplicemente esplicitato in via postuma dall’art. 613 bis. c.p.». Per tali ragioni, a detta della Corte, «non vi è dubbio alcuno che detta descrizione dell’azione avrebbe oggi portato all’incriminazione per il delitto di cui all’art. 613 bis. c.p. e che contiene tutti gli elementi minimali costitutivi che il diritto internazionale cogente, già riconosciuto peraltro dalla Repubblica dell’Egitto […], prevedeva al tempo delle condotte quale base essenziale di incriminazione penale da parte degli ordinamenti aderenti».
In relazione alle posizioni degli altri tre imputati, la Corte d’Assise ha ritenuto sussistenti gli elementi minimali costitutivi del reato di tortura «anche per i restanti imputati cui è contestato il delitto di sequestro di persona aggravato, pur senza il concorso nei reati direttamente lesivi dell’integrità fisica di Giulio Regeni: ciò non tanto in virtù di un principio di connessione finalistica tra le varie condotte […], quanto piuttosto valorizzando le modalità, le caratteristiche e le finalità delle condotte stesse, allo stato delle incolpazioni formulate». Infatti, «le modalità esecutive prescelte per il sequestro, di per sé induttive di grave sofferenza psichica e di prostrazione morale, aggiunte alla mortificazione corporale, non possono che essere state ispirate a quelle finalità essenziali della tortura pubblica di tipo punitivo e/o intimidatorio che connota il dolo specifico della fattispecie».
Conclude la Corte d’Assise che, «verificata l’essenza della nozione di “tortura” al tempo delle condotte e la sua cogenza, deve ribadirsi la sussistenza della giurisdizione italiana rispetto a tutte le ipotesi criminose contestate, in virtù dell’obbligo costituzionale di azione e sanzione per i fatti ad essa ascrivibili, quand’anche il principio generale di irretroattività delle incriminazioni fondato sull’art. 25 comma 2 Cost. ne abbia imposto la sussunzione in fattispecie con diverso nomen juris».