di Stefano Giordano

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO – Prima Sezione

CONTRADA C. ITALIA (ricorso n. 2509/2019) – Sentenza del 23.5.2024

Fatti principali

Nel 2017, nell’àmbito delle indagini sull’omicidio di un agente di polizia avvenuto nel 1989 (A.A.), la Procura Generale di Palermo (dopo avere avocato a sé le indagini) ha chiesto – e ottenuto dal G.I.P. – l’intercettazione di cinque linee telefoniche utilizzate da Bruno Contrada, senza che quest’ultimo rivestisse la qualità di persona sottoposta a indagini preliminari e men che meno di imputato nel procedimento in questione.

Nel 2018 la Procura ha inoltre eseguito anche una perquisizione presso l’abitazione di Bruno Contrada e presso altri due immobili da lui utilizzati.

E proprio leggendo il decreto che aveva disposto la perquisizione domiciliare, Bruno Contrada ha appreso che le sue linee telefoniche erano state intercettate e le conversazioni registrate.

Il provvedimento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Con ricorso presentato nel dicembre 2018 avanti la Corte EDU, Bruno Contrada ha lamentato l’ingiustificata lesione dei suoi diritti ai sensi dell’art. 8 della Convenzone (diritto al rispetto della vita privata, del domicilio e della corrispondenza), realizzata attraverso le intercettazioni e le perquisizioni suddette, nonché la mancanza di un effettivo sindacato giurisdizionale in relazione ai provvedimenti – di perquisizione e di intercettazione – disposti a suo carico nell’ambito del procedimento di cui non era stato parte, anche a mente dell’art. 6 (diritto a un processo equo) e dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione.

Con riferimento alla perquisizione, la Corte – a maggioranza e con la motivata opinione dissenziente di due dei sette giudici componenti il collegio giudicante – ha dichiarato le doglianze inammissibili per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, considerando rilevante a tal fine la possibilità di proporre istanza di riesame nel caso in cui la perquisizione fosse stata accompagnata (come nel caso concreto) da un sequestro.

Con riferimento alle intercettazioni, la Corte ha osservato che il ricorrente era stato vittima di un’ingerenza nei suoi diritti ex art. 8 della Convenzione.

La Corte ha ritenuto che il caso riguardasse specificamente la situazione di persone destinatarie di un provvedimento di intercettazione ma che non sono parti del procedimento penale nel quale è stato emesso ed eseguito il provvedimento.

Sorge quindi la questione se tali individui godano di garanzie adeguate ed effettive contro gli abusi, pari a quelle accordate alle parti del procedimento.

A tal riguardo, la Corte ha osservato che la legge italiana non prevede alcuna notifica, neppure successiva, del provvedimento disponente le intercettazioni nei confronti dei singoli soggetti le cui comunicazioni vengano intercettate ma che non siano parti del procedimento penale; e che, salva una svista o altro caso fortuito, quelle persone potrebbero non sapere mai di essere state sottoposte a captazione.

Nel caso di specie, il ricorrente non è mai stato informato del fatto che il suo telefono fosse intercettato; e ha avuto conoscenza della misura soltanto indirettamente, leggendo il decreto di di perquisizione.

Tuttavia, per le persone che non siano parti in un procedimento penale, ma che vengano comunque a conoscenza di essere sotto sorveglianza non è disponibile alcun rimedio che consenta loro di chiedere un controllo giurisdizionale sull’intercettazione.

Al riguardo, la Corte aveva in precedenza già affermato che privare un soggetto sottoposto a intercettazione dell’effettiva possibilità di impugnare – seppur retroattivamente – tale provvedimento significa privarlo di un’importante garanzia contro gli abusi.

La Corte ha dunque concluso che la legge italiana non offre garanzie adeguate ed effettive contro gli abusi nei confronti di soggetti che siano sottoposti a una misura di intercettazione ma che, poiché non rivestono la qualità né di imputati né di persone sottoposte a indagine, non sono parte del procedimento penale.

In particolare, non esiste alcuna disposizione normativa secondo la quale tali soggetti possano rivolgersi all’autorità giudiziaria, per ottenere un controllo effettivo della legittimità e della necessità della misura e conseguire eventualmente un risarcimento adeguato.

Alla luce di queste carenze, la Corte ha ritenuto che la legge italiana non soddisfa il requisito convenzionale della c.d. “qualità della legge” e non è in grado di mantenere l’ingerenza dello Stato nei limiti di ciò che è “necessario in una società democratica”.

La Corte, quindi, ha accertato la violazione dell’art. 8 CEDU, per mancanza di adeguata base legale dell’interferenza dello Stato; ritenendo assorbite le questioni attinenti la violazione degli artt. 6 e 13 della Convenzione.