di Valentina De Giorgio

Con sentenza del 27 marzo 2025, Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul caso Laterza e D’Errico c. Italia (ricorso n. 30336/22), riscontrando una violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita) sotto il profilo procedurale. Il caso riguardava la decisione di interrompere il procedimento penale avviato dai ricorrenti in merito alla morte del loro congiunto per un tumore polmonare, che, a loro dire, era stato causato dalla sua esposizione a sostanze tossiche sul posto di lavoro, la fabbrica di acciaio ex-Ilva di Taranto, ormai tristemente nota per l’inquinamento causato nelle zone limitrofe.

Nello specifico, G.L., impiegato tra il 1980 e il 2004 dall’ex-Ilva di Taranto, nel luglio 2010 decedeva a causa di un tumore polmonare. I suoi prossimi congiunti, il figlio e la moglie, presentavano denuncia contro ignoti per omicidio colposo sostenendo che la morte di G.L. era stata causata dalla sua prolungata esposizione sul posto di lavoro a sostanze tossiche utilizzate nella produzione dell’acciaio. Alla denuncia veniva allegata una perizia medica che affermava che G.L. era stato esposto in modo continuativo ad amianto e altre sostanze tossiche (benzene, idrocarburi e diossine) e che qualsiasi esposizione a tali sostanze costituiva un fattore di rischio per i tumori. La perizia concludeva per la sussistenza di un nesso causale tra la malattia e le attività dello stabilimento Ilva. Nel 2019 il pubblico ministero chiedeva l’archiviazione del caso, ritenendo che le prove raccolte non dimostrassero che la malattia che aveva causato la morte di G.L. fosse di natura professionale. Nel 2022 il giudice istruttore, pur ritenendo che non si potesse escludere una causa professionale per la condizione multifattoriale di G.L., archiviava il procedimento, ritenendo che per stabilire un nesso causale con la condizione di G.L. fosse necessario determinare il periodo in cui era stato esposto per la prima volta a sostanze nocive, ma che ciò era impossibile, poiché aveva lavorato sotto l’autorità di più persone.

A seguito di tale archiviazione, i ricorrenti presentavano ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo invocando l’aspetto procedurale dell’articolo 2 (diritto alla vita) della CEDU. I ricorrenti, infatti, sostenevano che le autorità nazionali avevano interrotto il procedimento penale senza tenere conto della perizia che dimostrava la correlazione tra le condizioni di G.L. e la sua esposizione a sostanze nocive sul luogo di lavoro e che, interrompendo le indagini, le autorità avevano scelto di non esaminare le prove che avrebbero permesso di identificare le persone responsabili delle misure di sicurezza nell’impianto.

La Corte ha osservato che, nel caso di specie, la decisione di archiviare il procedimento si era basata su un ragionamento circolare: poiché più persone erano state responsabili delle misure di sicurezza, era necessario determinare l’evento iniziale nel processo causale; tuttavia, proprio perché erano state coinvolte più persone, si era rivelato impossibile identificare tale evento. La Corte ha ritenuto che in un simile contesto, tenuto conto della giurisprudenza nazionale in materia e del fatto che un’origine professionale della patologia di G.L. non era stata esclusa in via preliminare, il giudice di merito avrebbe potuto disporre ulteriori indagini per accertare l’eventuale esistenza di un nesso causale tra l’esposizione a sostanze nocive e la malattia del deceduto, al fine di individuare i responsabili di eventuali violazioni delle misure di sicurezza.

Per tali ragioni, la Corte ha concluso che le indagini svolte non erano stata efficaci e ha riscontrato la violazione del profilo procedurale dell’art. 2 CEDU, senza però condannare l’Italia al risarcimento nei confronti dei ricorrenti a causa del difetto di richiesta di un equo indennizzo.