Di Massimo Benoit Torsegno
Il caso (sentenza del 14 gennaio 2021) trae origine del ricorso di una donna italiana sposata con un uomo di origine rom che lamentava la violazione degli artt. 8, 13 e 14 della Convenzione per non aver potuto esercitare il diritto di visita della nipote, di cui si era presa cura fin dalla nascita ed i cui genitori erano stati dichiarati decaduti dalla responsabilità genitoriale.
La Corte, dopo aver premesso che il proprio compito era di verificare se le autorità nazionali avessero preso tutte le misure che ragionevolmente ci si poteva attendere per mantenere il legame pacificamente esistente tra la ricorrente e la minore, e che l’adeguatezza delle misure dipende dalla rapidità con cui vengono adottate per evitare che il passaggio del tempo possano incidere sulla relazione con il minore, afferma che, sebbene gli strumenti previsti dalla legge italiana appaiano sufficienti, nel caso concreto, le autorità statali non hanno dato prova di diligenza, poiché i Servizi Sociali non hanno preso le misure appropriate a creare le condizioni per la piena realizzazione del diritto di visita.
Inoltre, nell’escludere la violazione dell’art. 14, che la ricorrente aveva lamentato in base all’asserita discriminazione fondata sull’origine etnica, afferma che nelle pronunce rese dalle giurisdizioni interne non vi è alcuna motivazione legata a ragioni etniche, e che i contatti tra la ricorrente e la minore non avevano avuto luogo esclusivamente a causa di un difetto organizzativo dei Servizi sociali, sottolineando, contestualmente che quest’ultimo costituisce la prova di un problema sistemico dell’ordinamento italiano, già evidenziato, peraltro, in precedenti pronunce rese nei confronti dell’Italia, ad es. nei casi Piazzi, Lombardo, Santilli, Bondavalli, Strumia, Solarino, Endrizzi.