di Rainer Maria Baratti
Da mesi la polizia bielorussa sta scortando al confine con la Polonia, la Lettonia e l’Estonia i migranti e i richiedenti asilo arrivati nel Paese. La situazione è maggiormente tesa al confine con la Polonia dove le guardie di frontiera polacche hanno utilizzato i gas lacrimogeni contro i migranti mentre dal lato bielorusso la polizia sparava in aria per evitare che le persone facessero marcia indietro. Migliaia di migranti e richiedenti asilo sono bloccati nelle foreste al confine tra i due paesi, al freddo, senza cibo, senza servizi e in mezzo al “fuoco” incrociato dei due schieramenti. La reazione polacca è stata muscolare: il premier Mateusz Morawiecki ad inizio novembre ha schierato 12 mila uomini dell’esercito dichiarando di essere determinato a difendere i confini della Polonia e degli europei. La mossa del premier è il seguito dell’emendamento approvato ad ottobre dal parlamento polacco che consente alla polizia di frontiera di espellere immediatamente i migranti che attraversano il confine illegalmente. Varsavia ha inoltre dichiarato lo stato di emergenza, istituito una “zona rossa” coincidente con l’area degli scontri (la strada che collega la cittadina bielorussa di Brozgi con la cittadina polacca di Kuznica) e ha vietato l’accesso a giornalisti, ONG e alle organizzazioni umanitarie. Secondo il Polish emergency medical team, a causa dei provvedimenti messi in atto dal governo, un bambino di un anno è morto di freddo nella foresta, mentre continuano i respingimenti sommari lontano da possibili testimoni. Attualmente la Commissione europea stima che vi siano 17 mila migranti e richiedenti asilo (provenienti dal Kurdistan siriano o iracheno, l’Afghanistan e lo Yemen) in Bielorussia, di cui circa 3 mila al confine tra Bielorussia e Polonia.
L’innesco della crisi sembrerebbe essere provato dalle sanzioni messe in atto dell’Unione Europea per la repressione violenta delle proteste seguite alle elezioni presidenziali bielorusse del 9 agosto 2020 e non riconosciute dalla comunità internazionale. Minsk starebbe tentando di utilizzare la vita di migliaia di persone come arma geopolitica al fine di ottenere un allentamento delle sanzioni. Inizialmente la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha definito “inaccettabile” la strumentalizzazione dei migranti messa in atto, definendo quello in corso come “un tentativo disperato del regime di Lukashenko di destabilizzare l’Unione e i suoi valori”. Se le dichiarazioni della von der Leyen potevano far nutrire un tiepido ottimismo per quanto riguarda le possibilità di accoglienza delle persone in difficoltà, notizie più recenti sicuramente affossano queste speranze iniziali. Durante il dibattito tenutosi il 23 novembre 2021 al Parlamento europeo, la vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas ha esposto i piani dell’Unione per i migranti e i richiedenti asilo bloccati al confine. Dal primo draft presentato sembra che non verrà previsto alcun piano per accogliere ed esaminare le richieste di protezione ma, anzi, la Commissione proporrà una specifica deroga all’art. 78 del TFUE. La vicepresidente della Commissione ha dichiarato che “non è una questione di flussi migratori ma una minaccia alla sicurezza”.
I primi momenti del dibattito nato attorno alla questione della frontiera bielorussa confermano l’atteggiamento della Commissione in materia di gestione delle frontiere. Di fatto la Commissione proporrà di legalizzare i respingimenti collettivi dei richiedenti asilo andando contro le norme adottate dalla stessa Unione. Ad esempio, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), diventata giuridicamente vincolante nel 2009 con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, all’art. 18 dispone che “il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea”. La stessa Carta, inoltre, all’art. 19, co.1, afferma che “le espulsioni collettive sono vietate”. Analogamente con l’art. 78 TFUE sancisce che l’UE è tenuta a sviluppare una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea volta a “garantire il rispetto del principio di non respingimento”. Secondo il diritto dell’UE quindi le espulsioni collettive, ovvero qualsiasi provvedimento che obblighi una pluralità di persone a lasciare il territorio di un paese in gruppo senza un preventivo esame ragionevole e oggettivo della situazione personale di ciascun individuo, sono in contrasto con l’articolo 78 TFUE. A ciò si aggiunge, soprattutto con riferimento alla Polonia, che potrebbe configurarsi una violazione dell’art. 4 del prot. 4 della CEDU, il quale vieta le espulsioni collettive anche nel contesto della non ammissione e del respingimento alle frontiere. In generale, il criterio decisivo perché un’espulsione sia definita “collettiva” è l’assenza di un esame ragionevole e oggettivo del caso particolare di ciascun individuo, situazione che sembrerebbe corrispondere con quanto sta accadendo alla frontiera bielorussa. Non a caso, infatti, alla fine di ottobre la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic ha esortato gli stati a non operare i respingimenti, definendoli contrari alle disposizioni della CEDU. Le vicende al confine polacco-bielorusso non possono che rappresentare un nuovo esempio dell’indifferenza delle istituzioni dell’Unione europea nei confronti delle vite dei migranti.